[C]i avete contattato in molti, neofiti delle pittura ad olio ma anche professionisti; la domanda è comune: quali sono i colori ad olio migliori in circolazione? Quali si adattano meglio al mio livello di pittura?
Ma, prima di “addentrarci” nella materia, vediamo a chi possono servire i colori a olio
Pittura figurativa tradizionale
- Ai pittori di paesaggio
- Ai pittori di nature morte
- Ai ritrattisti
- A chi ha bisogno di velature trasparenti e lucide per rifinire gli acrilici
- A chi si vuole avvicinarsi in modo classico all’astratto, preferendo la materia “elastica” dell’olio essiccato ad altre soluzione materiche
- A chi vuole esercitarsi con copie d’autore
- A chi intende raggiungere i massimi effetti di verità
Pittura contemporanea
- A chi vuole mantenere, nell’astratto nella sintesi, una matericità che appartiene alla tradizione
- A chi vuole completare acrilici, che sono più spenti, con interventi vivificanti
- A chi crede che le tecniche miste consentano il massimo dell’espressione tecnica
I colori ad olio, per quanto siano di più complessa gestione, non possono mancare nello studio di un artista, accanto agli acrilici.
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I LIMITI DEI COLORI A OLIO
Essi, nonostante costituiscano per antonomasia la pittura, richiedono tempi di asciugatura che sono piuttosto lunghi, specie se essi sono dati “a corpo” – cioè in strati spessi, come accadeva spesso nella pittura di Van Gogh – mentre l’essiccazione dell’acrilico è rapidissima e può essere assimilata a quella della tempera. L’untuosità dei materiali richiede un certo ordine da parte del pittore per evitare di sporcare gli abiti e gli ambienti in cui opera. Questi materiali esigono poi un certo esercizio compiuto con qualche prova in quanto, offrendo, con diluizioni performanti e uso dei pennelli di forma e ampiezze variabili, esiti diversificati, impongono la maturazione d’esperienza che consenta di sfruttare appieno le numerose possibilità offerte dal prodotto. Nel caso di una pittura realista o iperrealista essi richiedono tempi maggiori di attesa per le stesure successive e la capacità di fermarsi al momento giusto, ma sono indispensabili, anche solo come finitura, per rendere l’effetto del “vero“. Uno dei maggiori errori compiuti dai neofiti con i colori a olio è quello di raggiungere un buon risultato in una frazione della prima seduta e di voler andare oltre, nel completamento. Questo comporta spesso il crollo di qualità del quadro. Il colore a olio richiede all’artista, nell’ambito della pittura tradizionale, di evitare eccessive sovrapposizioni, a quadro ancora bagnato, poiché l’effetto è quello dello spegnimento del colore. Per le stesure successive sarà necessario attendere 24-48 ore – dipende dallo strato di materia – affinché la parte superficiale della pittura sia asciutta e sia possibile procedere con stesure superiori.
Ogni stesura superiore avrà invece tempi sempre inferiori poiché la quantità di colore generalmente impiegata è più lieve. Un caso a sé riguarda la cosiddetta pittura alla “prima“. Essa prevede che il quadro ad olio sia steso in una sola seduta, di getto. Ma i colori, in questo caso non vengono mischiati sulla tela, quanto giustapposti – messi, cioè uno accanto all’altro, più come tasselli di un mosaico che come pennellate tout court – per evitare mèlange che portano sempre a un colore indefinito, vicino al grigio tortora. La seconda stesura dovrà sempre avvenire quando ormai il quadro non appiccica. E la prova si affronta manualmente. Per chi non vuole attendere, esistono prodotti additivi, chiamati essiccativi o essiccanti, in grado di accelerare notevolmente l’asciugatura. Li vedremo poco più avanti, nell’articolo.
LA SCELTA DEI MATERIALI
Ecco un nostro elenco con le migliori marche e relativi pregi. Abbiamo provato ad uno ad uno ciascun prodotto, per potervi offrire una resoconto puntuale. Potrete così indirizzare la scelta nei confronti di un prodotto che sia in linea con le vostre esigenze tecniche e che rispetti il vostro budget. E’ certo il fatto che, specialmente nella pittura tradizionale – figura, paesaggio, veduta, natura morta – la qualità dei colori è determinante per l’esito del quadro. Come un pianoforte di livello per un concertista. La qualità dipende molto dalla purezza dei pigmenti utilizzati e del medium – l’olio di lino – nonché dalle modalità di incorporazione del medium nell’olio stesso.
Questi colori non virano, con il tempo, nonostante il naturale assestamento cromatico, che crea invece una fusione elegante dell’opera, in ogni sua parte. E si avvicinano maggiormente alle ricette tramandate dai pittori antichi. Terre e ossidi venivano infatti stemperati nell’olio di lino. La concentrazione del pigmento è direttamente proporzionale alla durata del tubetto e alla brillantezza del colore. Pertanto potrà sembrare di conseguire risparmi, con prodotti già molto diluiti. Ma questi ultimi si consumano prima.
IL COLORE DI QUALITA’
Il colore di qualità si presta ad una più ampia gamma di effetti, proprio in virtù alla concentrazione della materia prima. I costi variano appunto in base alla purezza, Può essere allungato, sulla tavolozza, secondo gli effetti che vogliamo ottenere. Essenza di trementina, principalmente, come diluente. Oppure un tocco minuscolo di acquaragia, che noi preferiamo poiché consente, se usata senza eccessi, di ottenere una più rapida asciugatura della prima stesura, anche se induce una lieve attenuazione della brillantezza. L’acquaragia può essere molto utile se operiamo all’aria aperta, davanti a un paesaggio che intendiamo catturare con una certa rapidità e che rifiniamo in studio o con un ritorno al posto in cui abbiamo impostato l’opera, senza lasciar trascorrere un tempo eccessivo.
Evitiamo invece di aggiungere olio di lino. I colori in tubetto, sotto il profilo del medium, contengono già olio a sufficienza. Aggiunte ulteriori provocano una mestica infatti molto unta, scivolosa difficilmente gestibile con scioltezza. E i tempi di essiccazione diventano infiniti. Ma ognuno deve sperimentare la diluizione secondo le inclinazioni personali. L’effetto è quello di un dentifricio al quale è stato aggiunta acqua. Anche la pennellata diventa difficilmente controllata e controllabile.
Come ben sappiamo, i tubetti di colori ad olio furono prodotti nella seconda metà dell’Ottocento e questa soluzione favorì notevolmente l’esercizio della pittura all’aperto. In precedenza ogni pittore acquistava i pigmenti – polveri – e produceva il colore, aggiungendo l’olio di lino, secondo le proprie esigenze. I colori in tubetto avevano il grosso vantaggio d’essere trasportati e utilizzati con comodità, mentre nel passato remoto gli oli erano collocati in vasetti, che potevano essere perfetti contenitori, se utilizzati in studio, ma che risultavano intrasportabili. Proprio per renderli pronti all’uso, i produttori trovarono proporzioni tra pigmenti e medium che consentisse al pittore di non portare con sé altro olio di lino, ma una sola boccetta con diluente. In commercio esistono ancora, soprattutto per i restauratori, colori in polvere che coprono una nicchia di mercato e che sono più adatti a chi opera in termini “terapeutici” su un quadro o su un affresco, più che a chi voglia raggiungere un risultato formale, espressivo o narrativo.
Colori a olio: ecco le recensioni:
MAIMERI: Olio puro. Una soluzione di alta qualità. Questo prodotto, infatti è definito puro in quanto il colore non è mescolato con altre sostanze. Si tratta di olio più pigmento e nulla più, se non un minimo apporto di additivi per migliorare la qualità del colore. Caratteristica principale, infatti, è l’attenzione e la fedeltà del colore. Un prodotto studiato per il risultato cromatico migliore possibile. Clicca qui per visualizzare e acquistare i colori Maimeri
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UN PICCOLO SEGRETO DEL MESTIERE
Quando avete finito di dipingere – e dovete lavare i pennelli e altri utensili o dovete smacchiare rapidamente il pavimento, il muro o un abito – anzichè utilizzare l’acquaragia, che può essere fastidiosa e lascia aloni, intervenite con acqua calda nella quale è stato sciolto detersivo verde al limone prodotto per i piatti. Il rapporto tra detersivo e acqua è quello che utilizziamo quando dobbiamo lavare padelle molto unte. Poichè il legante è l’olio di lino, il detersivo lo rimuoverà perfettamente con il colore in esso disciolto. Sciacquate poi con acqua calda e passate uno straccio sulle setole, che resteranno molto morbide ed elastiche e che aumenteranno la durata del pennello stesso.
DOVE FAR ASCIUGARE I QUADRI A OLIO
E’ rimasto tra gli aneddoti – basati su una vicenda vera – l’incidente occorso a un grosso quadro di Velazquez. Approfittando di una bella giornata di sole e di vento, il maestro aveva chiesto che i suoi assistenti ponessero il quadro, al quale stava lavorando, all’esterno affinchè fosse accelerata l’asciugatura superficiale. Naturalmente il quadro doveva essere sistemato “in piedi”, in una zona luminosa, ma non direttamente colpito dai raggi solari – per evitare surriscaldamento e la possibile colatura del colore – poichè tutti i pittori sanno che se si appoggia a terra l’intero dipinto, pur verso l’alto, su di esso rotoleranno, in breve, polvere, insetti e peli, catturati dalla viscosità del colore. Si procedette allora poggiando il quadro su un lato, dandogli la giusta inclinazione, affinché non cadesse avanti. Ma un colpo di vento colpì la tela, che si trasformò in una sorta di vela. L’opera volò e cadde in avanti, subendo danni a causa della sporcizia che si era mischiata al colore. Rimuovere sassolini, spighe, fili d’erba, insetti, capelli, peli, crini, polvere grossa significa rovinare le linee del dipinto.
Quindi. Bene all’esterno, a una certa altezza, nelle prime ore dopo la stesura. Poi all’interno, in un ambiente ben aerato e lontano da tutti. Mentre l’uso del phon funziona per accelerare l’asciugatura di tempere e acrilici – che normalmente, peraltro non ne necessitano – l’asciugacapelli agisce in modo insignificante sui quadri a olio. Anzi. Calore intenso e flusso d’aria tendono a scompensare l’unione tra pigmento e olio di lino. Pertanto, al di là di tutto: esterno non polveroso nelle prime ore, in caso di bel tempo. Se l’esterno è molto umido, per pioggia o nebbia, l’esposizione risulterà completamente inutile. Per togliere peli, capelli e fili d’erba dal quadro bagnato è assolutamente sconsigliato usare unghie o dita, che spandono il colore, mentre si consiglia una pinzetta da make-up, sottile e precisa.
LA DURATA DEI QUADRI A OLIO SENZA RILEVANTI MUTAMENTI DI COLORE
Le opere ad olio non devono essere costantemente colpite dai raggi del sole, che possono essere fonte dell’indesiderato schiarimento dei pigmenti. Per quanto riguarda la tela, il film pittorico può essere danneggiato da ambienti umidi e, ancor maggiormente, da luoghi in cui si passa frequentemente dal freddo umido al riscaldamento eccessivo. La tela si stringe e si dilata. Questo movimento diviene causa del distacco del colore.
La vernice finale è un ottimo aiuto per la conservazione cromatica del dipinto, poichè funge – oltre che da elemento uniformante che tende a colmare, nella pittura tradizionale, depressioni e rilievi del colore – da protettivo e, lievemente, da filtro solare. I colori in vendita hanno indicazioni sulla durata presunta del colore stesso, prima che inizi un mutamento cromatico, pur lieve.
*** ottima resistenza ai fenomeni luminosi corretti: minimo 150 anni nel caso in cui il quadro sia stato collocato lontano da una forte fonte solare diretta o sia illuminato da appositi faretti che non mutano i pigmenti;
** buona resistenza alla luce: minimo 75 anni nel caso in cui il quadro sia stato collocato lontano da una forte fonte solare diretta o sia illuminato da appositi faretti che non mutano i pigmenti;
* scarsa resistenza alla luce: minimo 25 anni nel caso in cui il quadro sia stato collocato lontano da una forte fonte solare diretta o sia illuminato da appositi faretti che non mutano i pigmenti;
I colori evanescenti (alcune aniline, il bitume genuino, il minio, i colori fluorescenti), invece, vengono in genere catalogati con un pallino nero.
ESSICCATIVI PER COLORI A OLIO
C’è chi aggiunge alla mestica acquaragia che smagrisce il colore, eliminando parte dell’olio e diminuendo notevolmente i tempi di asciugatura. Ma il rischio è che si crei una lieve patina o che il colori muti lievemente. Chi invece intende giungere a tempi più brevi di essiccazione, senza il rischio di mutamenti cromatici imprevisti, può utilizzare gli essiccativi (qui puoi trovare i prodotti migliori in commercio a un prezzo più che onesto).
COS’E’ LA VELATURA AD OLIO E COME SI OTTIENE
La velatura è una tecnica artistica di finitura del quadro che consiste nel porre uno strato sottilissimo di colore molto diluito sul sottostante dipinto, ormai asciutto, per ottenere effetti di trasparenza, semitrasparenza, per creare l’effetto traslucido o per mutare il colore sottostante. Essa, per quanto si dica praticata già, pur episodicamente, dai pittori egizi e dell’antica Roma, caratterizzò inizialmente la pittura fiamminga e si legò al colore ad olio, che fu utilizzato, nei Paesi Bassi, a partire dal Quattrocento, mentre, in Italia, per i dipinti da cavalletto, si faceva ancora uso di tempera grassa.Come ottenere, oggi, una velatura? Noi diamo la vernice finale al dipinto, attendiamo che asciughi per poter lavorare su una superficie “plastificata” o “vetrificata“. Quindi prendiamo pochissimo colore e lo diluiamo, sulla tavolozza, con liquido dello spray della vernice finale. Ed ecco un colore trasparente ma fortemente aggrappante. Per ottenere il liquido dallo spray, basta schiacciare il diffusore, scaricando in un punto della tavolozza il flusso aeriforme, a distanza ravvicinata, per una decina di secondi. Il mercato offre già anche colori trasparenti, che sono contrassegnati da un quadratino bianco sull’etichetta.
COME DARE LA VERNICE FINALE
Nel Novecento gli artisti tesero a utilizzare sempre meno la vernice finale, per ottenere un aspetto più materico e rozzo dell’opera. La vernice, infatti, tende a uniformare la superficie e ad esaltare il colore. Ai tempi di Turner, la vernice finale veniva data, ai dipinti a olio, nella sede in cui l’opera sarebbe stata collocata o negli spazi espositivi. Per questo è rimasto, nella terminologia artistica, il sostantivo vernissage, che significava, originariamente, verniciatura e che oggi è un incontro chic di inaugurazione di una mostra d’arte. Le operazioni di verniciatura avvenivano uno o due giorni prima dell’apertura ufficiale della mostra. E a questi delicati lavori, oltre agli artisti, era ammesso un pubblico selezionato di intenditori. Con vernissage si intese così un’inaugurazione tra pochi eletti; e, successivamente, assunse la connotazione di festa d’inaugurazione. La stesura della vernice finale, a quei tempi, non era compito del pittore, ma di operai specializzati che lavoravano esclusivamente con vernici trasparenti, acquisendo, in questo campo, un’assoluta abilità. Il quadro doveva essere asciutto da qualche mese per evitare che i diluenti sciogliessero parti di colori del dipinto. Il prodotto veniva steso con rapidità. E capitava spesso che questi artigiani fossero così abili da consentire all’artista qualche ritocco finale, disperato, che poi loro sapevano coprire.
Oggi esistono più tipologie di vernici finali, che si dividono, comunque, in vernici a pennello e vernici spray.
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Le vernici finali a pennello richiedono una perfetta asciugatura del dipinto. Il rischio è infatti che si sciolga anche una piccola parte del colore, che si unisce alla vernice stessa, la quale non è più totalmente trasparente e non più totalmente incolore. Sotto il profilo dei risultati tecnici, la vernice finale a pennello è indicata a restauratori, iperrealisti, copisti e a tutti coloro che intendono mettere una cura massima – diremmo classico-accademica – nella realizzazione dell’opera
Le vernici finali spray sono molto comode e permettono d’essere spruzzate anche 24 ore dopo aver finito l’opera e anche se questa non è perfettamente asciutta. L’importante è che il quadro non sia messo verticalmente. Lo spray va dato, dopo aver scosso vigorosamente la bomboletta per un minuto, a una trentina di centimetri di distanza dalla tela. Evitiamo l’ambiente chiuso. Meglio all’aperto, ma in una giornata senza vento. Oppure mettiamoci in un luogo aerato, ma senza correnti d’aria, che si porterebbero via tutta la materia volatile. Ricordiamoci poi, se intendiamo tenere il quadro in piedi, durante questa operazione, di non spruzzare troppa vernice, per evitare istantanee colature e formazione di grumi. Dobbiamo produrre un’emissione regolare e piuttosto rapida. Poi appoggiamo il quadro in posizione orizzontale, in un luogo dove non ci siano vento e polvere. E aspettiamo. Possiamo dare un’altra mano dopo qualche ora.
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LA STORIA
I PITTORI ANTICHI UTILIZZAVANO 14MILA COLORI
ALCUNI PRODOTTI ANCHE CON URINA E CERUME
Conoscere i prodotti utilizzati in antico non è solo fonte di curiosità, per l’artista o per l’appassionato, ma, al di là del fatto che qualcuno potrebbe provare le antiche ricette che ci sono state tramandate, esiste la possibilità di capire, attraverso i materiali impiegati, quanto il materiale fosse tenuto secco o fosse ricco di additivi. Oggi è possibile ingrassare o smagrire il colore, agendo sull’olio di lino, l’essenza di trementina e l’acquaragia. A partire, certo, da un buon colore di base.
[N]el 1864 il chimico Eugène Chevreul catalogò le tinte antiche: 14.400 tonalità cromatiche, tutte ottenute da sostanze naturali. Contemporaneamente la chimica industriale spopolava con l’immissione sul mercato dei colori sintetici, sicché molti artisti lasciarono alle spalle la produzione personale dei colori. I tubetti industriali, comodamente utilizzabili nell’ambito della pittura all’aria aperta, a diretto confronto con il vero, favorirono, ad esempio, lo sviluppo dell’Impressionismo. Ogni maestro del passato, invece, lavorava tra l’eredità delle conoscenze apprese in bottega, la sperimentazione e la ricerca. In molti casi, come avviene nella pratica alchemica, le formule restavano segrete. E’ certo il fatto che la miscela dei colori nasceva, con diverse modalità, dalla fusione di sostanze animali, vegetali e minerali, debitamente pestate, che dovevano depositare per giorni o diversamente bollire “il tempo di un padrenostro”. Alle soglie del terzo millennio la validità di tali ricettari resta intatta, anche se diventa difficile reperire alcuni ingredienti, che oggi sono stati sostituiti da sostanze chimiche.
Ma di sicuro certe tinte – si pensi ad esempio, solo per giungere al “vicino” Settecento, alla famosa lacca rossa di Fra Galgario, che vibrava di una luce intensa, o ai blu di Rosalba Carriera, ottenuti attraverso l’uso dell’orina – non sono altrimenti riproducibili. La sintesi chimica infatti ha molti vantaggi, ma non è in grado di offrire l’ampio ventaglio di elementi cromatici intermedi che risultavano unici e che non possono essere oggi ottenuti nemmeno attraverso una corretta miscela dei colori industriali di cui disponiamo. A partire dall’Ottocento, insomma, il numero dei colori di base diminuì, e i semitoni furono sempre più affidati alla realizzazione di accordi cromatici o di velature; l’effetto, comunque, non era evidentemente lo stesso. Un manuale dedicato alla produzione dei colori antichi fu realizzato nel 1887 da Olindo Guerrini e Corrado Ricci, riproponendo un codice del XV secolo, conservato alla Biblioteca dell’Università di Bologna. Il codice bolognese, nel XIX secolo, era inedito. Solo Michelangelo Gualandi, nelle sue Memorie originali italiane riguardanti le belle arti, ne aveva ripreso qualche passaggio. Il volume di Guerrini e Ricci intendeva così colmare la grave lacuna intercorsa tra Cennino Cennini – che operò in ambiente trecentesco, sulla lunga scia di Giotto – e i cinquecentisti. Un bicchiere di orina e piastre di rame per un affascinante azzurro Probabilmente le ricette per “creare colori” dovevano fungere da canovacci, interpretati spesso in maniera personale dai vari artisti (si pensi alle sperimentazioni leonardesche nel campo della pittura murale). Ad esempio gli azzurri, apparentemente uguali, dei dipinti del Francia e del Perugino, erano ricavati da sostanze ben diverse. Il ricettario di Guerrini e Ricci propone così molti e differenziati procedimenti per produrre ogni colore, e per ricavare lacche, vernici e inchiostri. L’azzurro, come dicevamo, si può ottenere in vari modi: “Prendi dell’orina e mettila in un vaso di terracotta in modo che sia pieno per metà. Poi prendi delle piastre di rame dello spessore di un caldaio grosso e mettile sospese due dita sopra l’orina. Chiudi il vaso e lascia stare per due mesi. Vedrai sopra le lamine l’azzurro”. Ma si può anche usare, se non si vuole far ricorso all’orina, del “succo di erbe”. Si devono cogliere all’inizio del mese di luglio “quei fiori viola che nascono nei campi” e con il loro succo riempire un’ampolla di vetro, versandoci sopra dell’aceto fino all’orlo. L’ampolla dev’essere poi chiusa ermeticamente e posta sotto il letame, per potervi osservare, dopo quindici giorni, l’azzurro. Dagli escrementi un’altra ricetta per ottenere le tinte del cielo Od ancora, si può ricavare dallo sterco canino bianco, triturato e stemperato con urina: si scrive o si dipinge usando tale composto e poi si spennella con il succo delle bacche dell’edera. Il ricettario spiega pure come riconoscere l’azzurro oltremare, derivato da lapislazzuli, da quello ottenuto attraverso altre procedure: “Metterlo su una lastra di ferro infuocata e pulita. Se non cambierà colore è ottima, se volge al nero, vale poco, se è adulterata diventerà cenere senza colore, se invece tende al biancastro, è stato prodotto artificialmente”. In modo analogo, diverse tonalità di verde possono essere ricavate da piastre di rame poste per quindici giorni nel letame, o dal succo di erba morella, o da gigli azzurrini scuri pestati, o da bacche di spincervino, o da fiori di vedovina tenuti in ammollo a caldo con ammoniaca e allume, o, ancora, stemperando con acqua gommata e allume di rocca fiori di guado precedentemente essiccati. Per ottenere invece un “granato cardinalesco”, occorre munirsi di “una libbra di verzino raschiato e metterlo a bollire fino a che si riduca di una metà, poi si prende una libbra di allume di rocca e la si fa bollire il tempo di un padrenostro”. Il risultato è un vermiglio, che si dovrà mescolare con liscivia forte.
Guscio d’uova e vetro pestato per un bianco bellissimo Per avere un bianco bellissimo, poi, “si mescolino cocciole di uova e vetro ben frantumato, mettendo il composto in un vaso di terra che andrà posto in una fornace per un giorno intero”. Il colore dovrà quindi essere stemperato con acqua gommata. L’incarnato è ricavato, diversamente, da una miscela di indaco, giallo orpimento, ocra e bianco. Prendendo dello zafferano e mettendolo a mollo con chiara d’uovo preparata per tre ore, si avrà invece un giallo luminoso. Lo zafferano può però essere sostituito anche dai pistilli gialli del croco essiccati. Oppure si lavora il tagete (o garofano turco) con allume a caldo e ammoniaca, e si ottiene il “giallo santo”. Il ricettario indica anche come realizzare, tramite un articolato procedimento, un inchiostro utile per scrivere: “Si prendano un boccale di vino bianco, quattro once di galla macinata, una manciata di scorze di melegrane secche, una manciata di scorze di ornello fresco, rasato con il coltello, e una manciata di scorze di radiche di noce fresche. Poi vi si uniscano due once e mezzo di gomma arabica e si metta il tutto al sole per sei od otto giorni mescolando spesso. In seguito è necessario aggiungere due once e mezzo di vetriolo romano e mettere a bollire per lo spazio di un miserere. Poi, una volta freddo, si deve colare il composto e metterlo due giorni al sole, aggiungendovi allume di rocca”. Secoli di tradizioni tramandate di bottega in bottega si ritrovano insomma nel compendio ottocentesco del Libro dei colori, che valica i confini dell’indagine, estrapolando processi chimico-alchemici dei maestri del passato, i quali pure ricorrevano a materiali organici. Come Cennini, che suggeriva, per ottenere un rosso, di aggiungere all’inchiostro, oltre all’albume, il cerume, definito in seguito dallo stesso Libro dei colori “saccatura de orecchie”. Cerume che probabilmente, per la sua natura sebacea, eliminava la schiuma prodotta dal chiaro d’uovo mischiato al vermiglione.
LE ANALISI SUI PIGMENTI DI CARAVAGGIO. NELL’ULTIMO PERIODO
UTILIZZO’ COLORI MISCHIANDO ALL’OLIO LE CENERI DEI MORTI
Fra il 1607 e il 1609 Merisi forse non ha scelta: predilige materiali che tendono a essiccare rapidamente, smette di copiare “al naturale” e le figure spesso sono desunte da modelli già impiegati in altre occasioni. Grandi superfici, tele a trama grossa ricavate dall’unione di più pezze, e spazi vuoti, in cui la scena è quasi sempre avvolta dall’oscurità, accentuano il senso di isolamento e solitudine che verosimilmente attanaglia il suo animo.
Questo in sintesi l’esito delle ricerche di Roberta Lapucci, capodipartimento del Settore Restauro all’Università Americana Saci di Firenze, condensate in un libro (L’eredità tecnica del Caravaggio a Napoli, in Sicilia e a Malta, edizioni Il Prato) nato dalla profonda conoscenza della vita e delle opere dell’artista, basata su investigazioni meticolose e appassionate. Lapucci ne è convinta: “Per comprendere le ragioni di un dipinto servono certo i documenti, ma per carpirne la genesi è fondamentale indagare sull’impiego dei materiali, sul metodo e il contesto in cui l’autore si trova ad operare. Materiali, metodo e contesto, spesso, sono gli elementi peculiari che determinano lo stile”.
Un esempio? In questi anni Merisi fa “largo uso del mummia – precisa Lapucci -, pigmento prodotto dalla combustione della carne animale, miscelata a resine, e usato dai fossori (operai specializzati nella sepoltura) in alcune fasi della conservazione dei cadaveri”. La tradizione orale vuole che i pittori isolani (Malta e Sicilia) si recassero a comprare materiali proprio dai fossori, senza disdegnare committenze che li vedevano impegnati a decorare le tombe stesse. Caravaggio non è da meno. Anzi. E’ ipotesi accreditata che egli utilizzò quei luoghi come “atelier”, rifugi sotterranei del passato cristiano con caratteristiche affini alla camera ottica e dunque adatte ad assolvere alle sue esigenze pittoriche. Il buio degli antri tufacei ricreava quell’atmosfera a lui indispensabile, la luce che filtrava dai lucernai in modo diretto e puntiforme consentiva a Michelangelo Merisi di inscenare composizioni dal forte pathos chiaroscurale e applicare gli eruditi saperi in fatto di ottica.
Caravaggio era arrivato a Malta nascosto a bordo della galea inviata da Costanza Colonna e Ippolito Malaspina, nel disperato tentativo di ottenere la prestigiosa investitura dell’Ordine in cambio dell’immunità politica. La rotta seguita dal Nostro era quella più battuta dal florido commercio dell’epoca e, per una coincidenza tutt’altro che fortuita, monopolizzata dalle famiglie Colonna e Doria, potenti committenti e protettori dell’artista.
L’arcipelago, rinomato crocevia europeo di scambi e profitti, era zona di pirati, predoni spudorati di carovane nord-africane che trasportavano schiavi e cotone. Non è un caso, quindi, che sia a Malta che Merisi dipinge per la prima volta su tele di cotone. Ma non è tutto. All’epoca del suo soggiorno, nel grandioso arsenale della Valletta vengono varate tre navi che portano rispettivamente il nome di San Francesco, Santa Caterina e San Girolamo, insinuando un’ipotesi allettante che stabilisce un legame preciso con i soggetti raffigurati da Caravaggio.
Poiché era usanza diffusa mettere in mostra dipinti in occasione del varo e i comandanti adornavano la loro cabina privata con arti e bellezze, anche stavolta l’effetto pare generato da una causa precisa. A dire il vero, il tavolo sul quale è chino il San Girolamo eseguito dal Nostro è una di quelle ribaltine usate dai naviganti per il carteggio; non è da escludere che il quadro sia stato composto – o quantomeno abbozzato – da Merisi direttamente a bordo, per assecondare l’innata propensione “a ritrarre al naturale”.
Caravaggio, poi, non era affatto digiuno di imbarcazioni e cantieri: un aneddoto curioso lo descrive nell’arsenale di Messina assai interessato agli allievi decoratori di certo Maestro Pepe, giovani calafati sospesi in aria a mezzo di funi, con gli abiti svolazzanti. Nel suo immaginario, e con l’aggiunta di qualche artificio, questi operai rappresentavano la quintessenza terrena di figure celesti: e da questo momento il pittore lombardo non si sarà più sentito costretto “a dipingere angeli a cagione di non averli mai veduti”.
Le preparazioni grossolane delle opere estreme
rendevano la tela vulnerabile all’aria salmastra
L’evoluzione della pittura di Caravaggio (1573-1610) è legata alla variazione della “ricetta” dell’imprimitura della tela. “Se nella fase giovanile – spiega Roberta Lapucci – Merisi utilizzava preparazioni chiare, grigie e ocra, nella fase matura esse divengono rosse e rosso bruno (tre strati – bianco, ocra, scuro – con olio solo alla fine). Nella fase tarda, quella della Sicilia e di Malta, le preparazioni si scuriscono sempre più con terre d’ombra e nero carbone, bitume-mummia e lacche (uno o due strati di mestica e olio sin dal primo livello).
Caravaggio vuole che i fondi diventino opachi, che assorbano la luce. Inoltre, le preparazioni della fase tarda – continua Lapucci – forniscono un effetto chiazzato, come se fossero stese in fretta e grossolanamente, provocando porosità e rigidità. Caratteristiche inidonee agli ambienti salmastri, che rendono il dipinto vulnerabile”.
I colori di questo San Girolamo? Lacche, malachite e azzurrite
Caravaggio arriva a Malta nel 1607 e attua una vera e propria rivoluzione artistica. Le opere maltesi sono tele sperimentali, “dure e spartane”, eseguite in economia di mezzi: austere e rigorose, sono caratterizzate da pennellate non finite che a stento coprono la preparazione. Pensiamo al Ritratto di Alof de Wignacourt e all’Amorino dormiente, sulla cui preparazione, scura e spessa, sono stati stesi pigmenti bruni-neri, con un solo guizzo di rosso nelle frecce e nelle labbra del fanciullo.
Il San Girolamo è, insieme alla magnifica Decollazione del Battista, pure conservata nella cattedrale di San Giovanni alla Valletta, dipinto emblematico di tale periodo. Pagato a Merisi con una collana d’oro e due schiavi neri, presenta un supporto di quattro porzioni di tela. La preparazione è in due strati molto porosi: una mestica oleosa rosso-arancio e una mestica bruno scuro. La tavolozza è composta da ocra rossa e gialla, terra d’ombra bruna e verde, nero carbone, bianco di piombo, lacca carminio, vermiglione e verderame, malachite e azzurrite.
Anche la sua pittura sembra “fuggire” con lui
In Sicilia le figure sono rapidi tocchi di luce
Fuggito dalla prigione di Forte Sant’Angelo a Malta, nel 1608 Caravaggio arriva a Siracusa, poi a Messina. La produzione siciliana è caratterizzata da tele a trama rada e di grande formato. Le analisi rivelano pochi pentimenti iconografici. Nella preparazione abbondano nero e bitume-mummia, mentre la tavolozza si riduce ulteriormente alle tinte essenziali: biacca, ocra rossa e gialla, terre brune. Le figure diventano stereotipate, appena abbozzate con pennellate di luce, come si può osservare nel Seppellimento di santa Lucia e nella Resurrezione di Lazzaro, opere contraddistinte da un’esecuzione sommaria, da un fondo rossastro che funge da mezzo tono, con una velatura di colore bruno, o nero, ad olio.
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