di Stefano Roffi
[F]ascismo, guerra, nazisti, alleati, Resistenza, Liberazione. Sono in Italia, gli anni Quaranta, anni di ambizione, di disillusione, di destabilizzazione, di sangue, di macerie, di rinnovata speranza.
Un periodo nodale, analizzabile anche attraverso le arti figurative, in particolare approfondendo il parallelismo intellettuale e documentario fra il realismo “bellico” di Renato Guttuso e il neorealismo cinematografico di Roberto Rossellini; i film della trilogia di Rossellini Roma città aperta (1945), Paisà e Germania anno zero (1946) e opere di Guttuso del periodo 1943-50, in particolare i dipinti Massacro e Trionfo della morte (1943), caratterizzati da forme sbranate e colori urlati, Ballo popolare (1945), dove il divertimento si distorce in angoscia, Fosse Ardeatine (1950), con una violenza di carattere seriale che si fa alienazione per gli oppressori come per le vittime, e la serie dei disegni Gott mit Uns (1944-45), testimoniali nel loro realismo espressionista, evidenziano sintonie in un approccio alla realtà di carattere ideologico e umanistico.
Nei concitati anni del dopoguerra Guttuso partecipa alla discussione tra figurativismo e astrazione, battendosi a favore di un potente realismo descrittivo che considera accessibile e utile alle masse.
Il cinema di Rossellini di quegli anni rappresenta da vicino la vita reale, in sintonia col movimento neorealista che si era sviluppato anni prima all’interno di un circolo di critici e futuri registi che ruotavano attorno alla rivista Cinema, fra i quali Antonioni, Visconti, Puccini, De Santis; Vittorio Mussolini, figlio del Duce, ne era il direttore. In opposizione alla scarsa qualità e verità dei film dei “telefoni bianchi”, sostenevano che il cinema dovesse riferirsi agli scrittori veristi di inizio Novecento.
Gli eventi della Resistenza e della ricostruzione post-bellica trovano nel neorealismo il mezzo narrativo congeniale, un atteggiamento non tanto estetico quanto etico, in cui le relazioni fra stile e visione del mondo sono moralmente costitutive. L’indisponibilità dei teatri di posa (con Cinecittà occupata dagli sfollati del quartiere di San Lorenzo) viene superata effettuando le riprese per strada con attori prevalentemente non professionisti: fattori che avrebbero potuto costituire un ostacolo divengono invece cifra stilistica dei film. Dopo decenni di magniloquenza, spazzata via dalla guerra, il neorealismo costituisce una risposta al bisogno di rappresentare la vita degli individui con autenticità, nella convinzione che la via realistica non preclude la spettacolarità.
Mentre il neorealismo viene associato alla cinematografia e all’Italia bellica e post-bellica, Guttuso continua a denunciare lo stato di oppressione dell’uomo per gran parte della carriera, affrontando tematiche sempre attuali come le atrocità della guerra, le condizioni dei lavoratori, la sopraffazione mafiosa, con senso di responsabilità sociale e con atteggiamento insieme storico e atemporale; ad esempio, un dipinto come L’occupazione delle terre dimostra come egli riesca a conciliare pittura di storia, genere che con lui perde ogni residuo retorico, e ideologia politica, mantenendosi pienamente contemporaneo.
Mentre imperversano espressionismo astratto, minimalismo e arte concettuale, Guttuso resta saldo sulla strada non alla moda del realismo, esprimendo emozioni in modo diretto, drammatico e universale; gli orrori della guerra vengono trattati con efficacia da pochi altri artisti dell’epoca, fra i quali Picasso, con Guernica (1937) e Massacro in Corea (1951), e Sutherland, con le scene delle città inglesi bombardate. Inoltre, nelle nature morte che Guttuso dipinge nella prima metà degli anni Quaranta è spesso presente il bucranio, un motivo ornamentale riproducente un cranio di bue, che non vuole alludere alla morte in senso escatologico, ma alla violenza bellica.
Il rapporto fra Rossellini e Guttuso non è di relazione e influenza diretta, piuttosto all’insegna di un parallelismo emozionale. Alla metà degli anni Quaranta, lo sforzo generale di rinascita dalle devastazioni della guerra si affianca al desiderio romantico e nostalgico di una realtà sociale unificata e all’indagine sul potenziale di sopravvivenza consentito all’uomo in quell’epoca. E’ in questo ambito che, esplorando i fondamenti del realismo, si incontrano Rossellini e Guttuso.
Rossellini non partecipa attivamente alla Resistenza e risulta essere una figura di intellettuale essenzialmente apolitica. I suoi film del periodo fascista non sono di propaganda e neppure la sua trilogia neorealista è motivata da aspetti politici; si può invece affermare che la politica sia una significativa fonte di ispirazione per lui: in questo senso egli è un artista profondamente politico, cioè immerso in quanto avviene nella collettività, ad esempio nell’evidenziare la vicinanza fra cattolici e comunisti in Roma città aperta.
Guttuso, attivo nella Resistenza dal 1943, entra in clandestinità fino alla liberazione di Roma nel 1944. Durante la guerra, dipinge opere di denuncia violenta e dolente, pregiudizialmente anti-militariste. Convinto che il marxismo offrisse la promessa più convincente dell’affermazione di una concezione dell’uomo come fine e non come strumento, ne sposa non tanto gli aspetti politici quanto quelli di carattere umano e dialettico; in quest’ottica, la funzione dell’arte come mezzo e documento di civilizzazione è condizionata al suo impegno a sostegno dell’uomo.
Roma città aperta descrive eventi che hanno luogo a Roma nei primi mesi del 1944 quando è in corso l’occupazione nazista; gli alleati entrano in città poco prima che il film inizi a prendere forma, quindi pressoché in tempo reale; un film realizzato sotto l’impressione di eventi che il regista aveva vissuto da poco, scrivendo in diretta una pagina di storia ed esprimendo un senso di dissoluzione non soltanto umana e fisica ma anche metafisica ed esistenziale, dove la documentazione delle sofferenze materiali si unisce all’esplorazione del trauma spirituale.
Fra le opere di ispirazione bellica di Guttuso, la sua partecipazione alle tragedie di quegli anni si esprime particolarmente nei disegni del Gott mit Uns – “Dio è con noi”, motto inciso sulle fibbie dei soldati nazisti – realizzati in reazione al massacro delle Fosse Ardeatine, esponenziale rappresaglia per l’uccisione di trentadue tedeschi della polizia militare da parte dei partigiani. La situazione storica ed emotiva, l’insensatezza del dramma e la composizione scenica, evocano la grande tela di Goya Il 3 di maggio, anche in questo caso una rappresaglia, di cui Goya aveva dipinto pure l’antefatto.
Sempre di Guttuso sono Massacro e Trionfo della morte, derivanti da Guernica: i corpi smembrati di uomini e donne senza più un volto, i cavalli a terra, il caos pervasivo dell’insieme, descrivono uno stato di brutalità atemporale il cui responsabile è identificabile solo in via allegorica; il culmine della denuncia è rappresentato, con riflessione storica attualizzata, da Fosse Ardeatine, scena di livida e meccanica mattanza, dove aguzzini e vittime sono confusi in un destino di inumanità e dove il sangue rossissimo dei caduti sgorga copioso a vita futura (comunista?) da corpi del colore della terra, della roccia e delle tenebre.
Per quanto lo spettatore possa comprendere che i film di Rossellini e le opere di Guttuso sono ambientati a Roma, l’assenza di luoghi riconoscibili crea ambiguità e straniamento, con conseguente delocalizzazione drammatica e sublimazione narrativa. In Roma città aperta fa eccezione una veduta finale di San Pietro, oltre a fugaci apparizioni di Trinità dei Monti e dell’Eur: simboli di attivismo secolare sotto l’egida della spiritualità cristiana; in Paisà compaiono alcune rapide visioni della Roma monumentale. La presenza di icone urbane in Rossellini è dunque sobria; contrasta coi miti turistici della città intesa come luogo di bellezza classica ed è inoltre antitetica rispetto alle strategie con le quali l’architettura urbana era stata utilizzata dal regime fascista, per il quale gli edifici romani rappresentavano mezzi per proiettare una evidenza del ruolo “provvidenziale” mussoliniano.
Anche le opere di Guttuso riflettono questa assenza di iconizzazione ambientale. Nella serie Gott mit Uns, figure e scenari condividono uno stato d’angoscia eternamente presente che riduce la rappresentazione soltanto all’umana tragedia; talora si scorge San Pietro in lontananza, a ricordare la sopravvivenza dell’identità nazionale e spirituale, nonostante la tragedia.
In Paisà, Rossellini collega il paesaggio al tema della morte; il film è angosciante, in sospensione fra epopea e tragedia, rivelando gente senza un mondo proprio, in un contesto in cui il paesaggio stesso gioca un ruolo fondamentale nel produrre significati, o piuttosto la mancanza di significato che costituisce la natura ambigua dell’opera. Alcuni personaggi sono ripresi come parte del paesaggio ad aggirarsi attoniti fra rovine ancora fumanti, come zolfatari di Guttuso, come prigionieri del fotogramma del film: si direbbe che non c’è via di fuga dall’incontro con la verità.
Guttuso nei dipinti “bellici” esprime questo stesso straniamento con “presenze” prive di volto o comunque irriconoscibili, associate all’angoscia della morte e alla morte reale. Emerge da sfondi desolati l’oscurità che trattiene le figure, schiacciandole in un’oppressione senza fine.
Nella scena dell’uccisione di Pina (interpretata da Anna Magnani, ritratta da Guttuso nel 1960) in Roma città aperta, si vede la donna correre verso il camion che porta via il suo uomo e poi cadere al suolo colpita a morte, ma chi le ha sparato non è visibile. Testimonianze di vicende reali della Resistenza confluiscono nel film con la relativa coloritura retorica: proprio la scena della morte di Pina è modellata sulla morte reale di Teresa Gullace, una donna anch’essa incinta uccisa dai nazisti a colpi d’arma da fuoco.
Guttuso sembra attingere alle medesime vicende nel dipinto Morte di Maria Margotti (1949), dove rappresenta l’uccisione di una bracciante nel corso di uno sciopero generale nella valle del Po; la donna giace a terra in una pozza di sangue, i suoi compagni guardano presumibilmente verso gli aggressori, non inquadrati, in uno stato generale di pietrificazione. Nel film e nel quadro, le forze del male non sono identificabili, così da sottolineare la sensazione di violenza insensata contro persone comuni e da creare tensioni subliminali fra lo spettatore e la scena.
I dipinti post-bellici di Guttuso evidenziano aspetti narrativi in dialogo fra presente e storia che sconfinano nel distacco contemplativo; vi si avverte una forte componente letteraria. Leggere i quadri dell’artista come se fossero libri su quello che era l’Italia di allora, potrebbe forse aiutare a capire perché tanti scrittori videro in lui il pittore riuscito nell’impresa di dare voce e insieme colore al loro senso di sgomento storico.
La contrapposizione delle identità politiche e sociali dell’epoca viene rappresentata da Rossellini e da Guttuso anche tramite l’espressività fisica, utilizzando il corpo dei personaggi come medium di istanze ideali. Il neorealismo può essere correlato alla Commedia dell’Arte nell’assenza di una sceneggiatura vincolante, nel casting basato sull’evocatività fisica, nella recitazione enfatica, nel riferirsi al potenziale narrativo del corpo piuttosto che a quello della parola per dare testimonianza di una esperienza storica. Guttuso stesso conferma che, per il realismo, il corpo è il luogo della storia, affermando, nel 1971: “Il volto è tutto. Sulla faccia della gente c’è la storia che stiamo vivendo, l’affanno dei giorni. La portiamo incisa più dei fatti che ci accadono in presa diretta o che avvengono lontano: noi siamo la vera pellicola della realtà; e io la dipingo”.
C’è una scena in Paisà in cui un gruppo di romani, prostitute e soldati americani si trovano in un bar, a fumare, a bere e a socializzare; uno spazio rumoroso e ristretto che esprime spensieratezza, con una forte tensione sottostante originata dal diverbio fra due donne e portata al culmine quando il bar viene rastrellato dalla polizia militare. La tensione trasforma una situazione di divertimento in un contesto caotico.
Tensioni altrettanto marcate sono in Ballo popolare di Guttuso (1945). Sotto la luce abbagliante delle lampadine, i volti dei ballerini sono, alternativamente, assenti, ambigui, distorti al punto da sembrare maschere (come personaggi di Ensor); è evidente il disagio dei movimenti, che appaiono rigidi, malinconici, svogliati.
A dispetto della rappresentazione di un’attività piacevole come il ballo, trapela anche qui un senso di impalpabile ansietà, di calma disturbata.
L’approccio alla realtà del pittore e del regista resta in definitiva metaforico, perché una parte delle vicende è interpretata, come drammatizzazione di fatti contemporanei. Rossellini guarda ad eventi dei quali egli non è politicamente partecipe, e, attraverso la genuinità delle situazioni e della gente, crea l’illusione che gli eventi stessi si stiano verificando in tempo reale; la novità di Roma città aperta sta nella trasformazione dell’arte in informazione collettiva, operazione attraverso la quale il regista fornisce una memoria reale di qualcosa di cui lo spettatore non ha avuto esperienza, rendendola autentica nell’artificio. Guttuso, con immagini chiuse in una forma di staticità iconica, offre un resoconto di avvenimenti nei quali egli è politicamente attivo; nel farlo, circoscrive nel passato gli accadimenti terribili che rappresenta, rendendoli senza tempo e consentendo allo spettatore di osservarli e perfino di credersi testimone.
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