Pietro Rotari e le donne dimezzate. Storia e quotazioni gratis

I ritratti femminili dell'artista settecentesco mostrano e nascondono, con una mano danno e con l’altra tolgono. Ciononostante la loro grazia è intatta o addirittura accresciuta. Giunti, sul piano scivoloso del paradosso in pittura, alla negazione del vedere pienamente e quindi del possedere con gli occhi. Nel servizio, le quotazioni dell'artista veronese, dalle stime ai risultati d'asta


I dipinti che analizziamo sono tutti di Pietro Rotari. L’opera di Poussin è indicata in didascalia 

di Claudio A. Barzaghi

 Quando il collezionista Fréart de Chantelou invita a casa propria Gian Lorenzo Bernini per esibirgli – con malcelato orgoglio – la serie dei Sette Sacramenti realizzata per lui (1644-48) da Nicolas Poussin, nelle sue annotazioni diaristiche l’ammirazione dello scultore per quanto sta osservando si colora d’inquietudine e si spinge fino all’agitazione fisica. Nel resoconto del collezionista l’ammirato Bernini viene attratto in modo evidente da alcuni dettagli. In modo particolare, davanti al quadro Il Matrimonio, risulta sedotto dalle figure femminili presenti alla cerimonia, e ancor di più da quella sulla sinistra che, investita dalla luce proveniente da una finestra fuori campo, è letteralmente dimezzata verticalmente da una colonna. In realtà della fanciulla poco o nulla si scorge, a mala pena un po’ di panneggio.

Nicolas Poussin, Il matrimonio, 1647-48
Nicolas Poussin, Il matrimonio, 1647-48

L’illustre cavalier Bernini si direbbe l’ennesima vittima della seduzione dell’occultamento. Di cosa si tratti ce lo descrive il Wolfflin: “Il terzo momento nello stile pittoresco è quello che vorrei chiamare l’Inafferrabile. Per ottenere un ‘disordine pittoresco’ occorre che i singoli oggetti non vengano rappresentati per intero e nitidamente, ma che restino in parte coperti. Il motivo del ‘coprimento’ è uno dei più importanti per lo stile pittoresco. Questo suppone che tutto ciò che può essere afferrato completamente di primo sguardo produca un’impressione noiosa nel quadro: perciò qualche parte resta coperta, gli oggetti vengono sovrapposti l’uno all’altro, sono visibili solo in parte, e con ciò la fantasia viene stimolata in sommo grado a immaginarsi quello che sta nascosto. Si ha la sensazione che gli oggetti seminascosti abbiano in se stessi l’impulso di sciogliersi dalle tenebre e di uscire alla luce. Il quadro si ravviva”.
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All’origine lontana nel tempo c’è una sfida raccontata da Plinio il Vecchio, la contesa tra i pittori ellenistici Zeusi a Parrasio. Il primo dipinge acini d’uva così realistici da indurre gli uccelli a beccarli, ma ammette cavallerescamente la sconfitta quando, desideroso di vedere l’opera dell’avversario, lo invita a scostare il drappo che la copre. Parrasio, limitandosi a dipingere una tenda, non aveva ingannato dei semplici animali, ma “ingannato lui, un artista”.
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Pietro Rotari – nato a Verona nel 1707 e insignito del titolo di conte per meriti artistici nel 1740 – è un pittore molto mobile (Venezia, Roma, Napoli, di nuovo Verona, e poi Vienna, Dresda e infine la Russia), a tal punto da costringere gli storici a dividere la sua carriera in cinque periodi. Nel quarto di questi periodi egli si divide tra Dresda e Vienna (dal 1750 al 1756), e qui dipinge per l’imperatrice Maria Teresa una Madonna parzialmente coperta da un velo così realistico che la sovrana “si prese talora il divertimento di vedere ingannati alcuni personaggi della sua Corte: i quali credendo veramente vi fosse un velo si accostavano per vederlo onde scorgere ciò che vi fosse dipinto”.
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L’episodio in sé non è nulla di eccezionale, la pratica del trompe-l’oeil era diffusa e apprezzata da tempo, ma per questo artista rappresenta solo un germe, l’inizio di un’idea destinata a fruttificare con ben altri esiti estetici una volta giunto in Russia (nel 1756), dove la zarina non baderà a spese pur di trattenerlo a corte. Indizio del fatto che in Rotari alcune consapevolezze relative alla seduzione dell’occultamento fossero già parte sostanziale della sua visione, il fatto di non essersi mai dedicato al nudo, condividendo la considerazione che “il nudo intero sazia, il mezzonudo alletta”.
E’ la stessa allettante malia esercitata dal lato oscuro della Luna, il quale c’è, non possono esserci dubbi, ma è in mille modi diversi immaginabile (fino a sospettarlo d’ospitare basi aliene o costruzioni extraterrestri). Ridurre la porzione di informazione a disposizione dell’osservatore sovreccita i poteri immaginifici della mente. E il Settecento è il secolo per eccellenza dell’immaginazione, teorizzata e coltivata in ogni forma e ambito possibile, incluso quello erotico.


Di fatto Rotari si cimenterà ancora con opere trompe-l’oeil in cui il velo è la chiave della seduzione, e una di queste sembra dimostrare in modo particolarmente efficace il potere dell’occultamento oltre a rispecchiare lo spirito di un secolo che “si è abbandonato, e con delizia, a tutte le varietà dello sdoppiamento” (Jean Starobinski).
L’opera in questione è lo “sdoppiato” Incontro tra Alessandro Magno e Rossana, esposta nella versione svelata all’Ermitage, mentre quella oscura (però con dimensioni assai più ridotte) è stata messa all’asta da Christie’s. Ed è pur vero che l’avvenente Rossana giunta per supplicare Alessandro sembra farlo innamorare, ma soggetto e atteggiamento dei protagonisti non sono certo tali da richiedere la pudica censura di un velo. Insomma, in una simile opera il soggetto autentico è il tessuto che copre, e il piacere risiede nell’impossibilità di scorgere quanto esso cela.

In questo caso l’opera in chiaro consente di attribuire un senso e un soggetto (nonché il titolo) all’altra, ma il confronto tra le due versioni è tutto a vantaggio della versione criptata: “Il quadro ‘nudo’ non sembra più offrire un ruolo particolare allo spettatore e restituisce un primato assoluto all’invenzione dell’occultamento. Il velo devia la visione della scena verso l’enigma, rendendo fisico il mistero, creando un desiderio di conoscenza ben più significante della stessa soluzione” (Massimo Pulini). Il quadro svelato è un semplice barocchetto cortigiano, l’altro, invece, in virtù dell’impedimento visivo sapientemente realizzato dall’artista, ancor oggi seduce e affascina grazie all’ostentata impenetrabilità che lo caratterizza.
Nel frattempo il “vedo-non vedo” in Rotari evolve e investe con una nuova malizia quelle figure da lui stesso definite “passioni” (termine quanto mai significativo), cioè quelle singolari testine – per lo più fanciulle – realizzate a centinaia, che oggi compongono la stupefacente quadreria del salone Peterhof nel castello di San Pietroburgo: una vera e propria versione pittorica della città delle donne (però allestita così, nella versione visibile ancor oggi, da Caterina II di Russia due anni dopo la morte dell’artista, avvenuta nel 1762).
Sono ben 368 le opere del conte Pietro esposte nel Salone e, fatta eccezione per alcune figure di anziane, giovinetti e pochi dipinti a figura intera nuovamente velati, le altre sono tutte testine di donne giovani e belle in preda a espressivi moti dell’animo. Certo, l’origine dell’impressionante messe di piccoli ritratti può essere individuata, come ricostruisce acutamente Paola Goretti, in “precedenti seicenteschi di impronta romana e laziale, a loro volta dipendenti da un foltissimo ginepraio di ‘Gallerie di Belle’ di matrice cinquecentesca sparse in palazzi nobiliari e in eclettiche collezioni”, e altrettanto verosimilmente ispirata dall’operina anonima Almanacco delle Donne illustri, pubblicata a Venezia nel 1750 e in larga misura attribuibile alla scrittrice Luisa Bergalli Gozzi.
Ma ciò che a Peterhof maggiormente colpisce è la presenza, all’interno della folta schiera di “belle tra le belle”, di numerose fanciulle che – seppur in forma più sfumata e suadente – sembrano riproporre la medesima attrazione per l’occultato e il suo fascinoso potere sull’osservatore. Infatti, a dispetto delle riscontrabili differenze di censo (aristocratiche e contadine mescolate insieme) e provenienza geografica (grazie a tratti somatici e abbigliamento è possibile individuare italiane, francesi, russe e zingare), numerose tra loro sono accomunate da uno “strumento” o un atteggiamento col quale celano allo sguardo una porzione significativa del volto.
Può essere un libro, un manicotto di pelliccia, il capo reclinato oppure il semplice tocco dell’ombra, quando non è il fazzoletto col quale asciugare lacrime e dolore; di fatto, tramite un modesto artificio, nascondono all’osservatore una porzione significativa delle loro sembianze. Si esibiscono per noi, si concedono al nostro sguardo estraneo, eppure, e simultaneamente, si schermiscono negandoci una parte importante (chi gli occhi, chi la bocca, talune un’ampia porzione del viso).
Mostrano eppur nascondono, con una mano danno e con l’altra sottraggono. Ciononostante la loro grazia è intatta, se non addirittura accresciuta da una forte carica seduttiva. Siamo oltre l’inganno ellenistico, al di là dell’illusionistico trompe-l’oeil. Giunti, sul piano scivoloso di un paradosso per l’arte visiva, alla negazione del vedere pienamente e quindi del possedere con gli occhi.
Per una corretta interpretazione sembra soccorrerci ancora una volta Starobinski quando, in apparente contraddizione con la luminosità facile di Rotari, per spiegare il secolo richiama in scena nei ruoli principali le pulsioni più profonde: “Quest’arte che volle espellere l’ombra dal mondo raggiunge la sua piena grandezza in quegli artisti, come Mozart e Goya, che avvertirono in loro e attorno a loro il ritorno minaccioso dell’ombra”.
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