Nonostante i film disneyani fossero stati proibiti in Germania, poichè prodotti da una cultura nemica, e in modo stupefacente – così da dare l’impressione che la tecnologia americana fosse di gran lunga superiore, in ogni campo, a quella tedesca – Hitler li adorava. E se li faceva proiettare segretamente ogni sera. Aveva una grande passione per i sette nani, che tanto gli ricordavano gli gnomi delle fiabe della sua infanzia.Li disegnava nei momenti liberi, riprendendo quelle matite che aveva tanto amato, al punto da sognare, in gioventù, di diventare pittore. (in fondo alla pagina troverete il link gratuito attraverso il quale potrete leggere la storia di Hitler pittore e vedere un buon numero di sue opere). E in fondo, quella che Disney aveva rappresentato con i suoi miti, con le sue statue, i suoi paesaggi era, davvero, la Germania. E poco gli importava, personalmente, che qualcuno avesse proprio visto il suo volto sovrapporsi, a livello simbolico, a quello della cattiva Regina.
[L]a malvagia matrigna della Biancaneve disneyana ha il volto di una statua antica tedesca. La scoperta è di Stefano Poggi, che vi ha dedicato un libro, La vera storia della Regina di Biancaneve, dalla Selva Turingia a Hollywood, edito da Raffaello Cortina.
La figura sarebbe stata ispirata a Disney da quella di Uta di Ballenstedt, nobile vissuta in epoca medievale, la cui effigie è visibile sulla facciata del duomo di Naumburg, nella Germania centro-orientale. Ed effettivamente, se confrontiamo le immagini del film con la scultura, la somiglianza appare sconcertante. Ma quali sono le condizioni che hanno reso possibile questo contatto? Ecco la ricostruzione di Poggi.
All’origine della vicenda ci sarebbe il figlio di due immigrati tedeschi, Wolfgang Reitheman, che a metà degli anni Trenta lavorava negli studi della Disney. Sapendo che l’autore di quello che sarebbe stato il primo lungometraggio a cartoni animati della storia del cinema era alla ricerca di un volto per l’antagonista di Biancaneve, Wolfgang gli suggerì di trarre spunto proprio dalla statua di Uta di Ballenstedt, che egli aveva visto in un libro d’arte appartenuto al padre.
Inizialmente scettico, Disney si fece poi convincere, e partì per l’Europa, dove rimase affascinato dalla scultura. La decisione era presa. Il nome originale fu mutato in quello di Grimhilde, che mantiene una chiara traccia della sua ascendenza teutonica: forse un semplice omaggio alla patria della figura ispiratrice… ma ci sono altre teorie.
Ad esempio, nel binomio Uta-Grimhilde può essere visto il tentativo di inquinare la propaganda nazista, che aveva promosso la nobildonna a simbolo eroico, emblema della bellezza femminile germanica. Lo stesso Goebbels rimase colpito negativamente dal “furto” dell’icona – non dimentichiamo che la matrigna di Biancaneve si trasforma in orribile strega -; e non è un caso che la visione del film fosse stata proibita al pubblico dalle autorità tedesche. L’utilizzo dell’effige in chiave anti-nazista è analizzata dall’autore del saggio anche in relazione al documentato incontro di Disney con Marlene Dietrich e il suo fotografo, Paul Horst, sul transatlantico France, durante il quale la protagonista de L’angelo azzurro avrebbe convinto il cartoonist a perorare la causa degli oppositori del Führer.
A questo punto, però, la storia si apre a nuovi scenari, rivelando a sorpresa caratteri inaspettati riguardanti proprio le abitudini del Capo supremo del Terzo Reich.
La sera è scesa da poco e le incombenze più urgenti sono già state sbrigate. Seduto comodamente in una sala della Cancelleria, Adolf Hitler si appresta a rivedere per l’ennesima volta… sì, Biancaneve e i sette nani! La diffusione della pellicola in Germania, come si diceva, è stata proibita, per timore che la stessa possa rivelarsi veicolo di messaggi non conformi al pensiero nazista. Ma al Führer l’opera piace, se la fa proiettare spesso e volentieri, e ogni tanto – addirittura – si diverte a disegnare i buffi personaggi protagonisti della favola: Dotto, Mammolo, Cucciolo…
Quello che in apparenza può apparire come un atteggiamento inconsueto da parte del dittatore tedesco ha radici ben lontane, che risalgono alla sua giovinezza, agli anni nei quali viveva un’esistenza bohemien nei sobborghi di Vienna e dipingeva modeste vedute da vendere ai turisti, unico mezzo per mantenersi. La mancata ammissione all’Accademia lo aveva scoraggiato dall’intraprendere la strada dell’arte con la A maiuscola, e tuttavia egli avrebbe continuato anche in seguito a cimentarsi con oli, tempere, acquerelli, disegni. E persino con i personaggi di un cartone animato per bambini, copiati in modo piatto e stereotipato.
Certo, risulta complesso mettere in relazione tra loro due immagini così contrastanti: da una parte un uomo crudele e delirante, dall’altra le innocenti icone di un mondo puro, inattaccabile dalla violenza. Invece può accadere, a volte, che tali sfere entrino misteriosamente in contatto, disorientandoci. Un folle sanguinario mostra un’inattesa, fragile dimensione infantile, e questo non può che disturbare. Ma anche in ciò si esplica, in fondo, la potenza dell’arte, capace di promuovere un viaggio introspettivo persino partendo da un disegno di mediocre fattura.
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