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NEL FILMATO UN VIAGGIO TRA LE OPERE DI ANDREA CELESTI
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Nato a Venezia nel 1637 e trasferitosi sul lago di Garda, dopo la formazione a Venezia, l’artista fu esponente del barocco veneto. Morì a Toscolano, paese dell’alto lago, nel 1712. Fu allievo di Matteo Ponzone e successivamente di Sebastiano Mazzoni e si inserì in quel filone che, trovando come capostipiti Tiziano Veronese-Tintoretto, avrebbe portato a Tiepolo. Stilisticamente, infatti egli porta avanti una pittura morbida, tonale, con ottimi effetti di pittoricismo, con una pennellata libera, com’è tradizione veneta. Sotto il profilo cromatico offrì anche dipinti gioiosi, ricchi di un’infinità di sfumature e di contrasti tra sfondi tenebrosi e la luce, che rinviano alla tradizione tintorettesca, poi ripresa e portate alle estreme conseguenze realistiche dal Caravaggio.
Tra i più importanti ritratti pubblici che realizzò, quello del doge Nicolò Sagredo, che fu dipinto, nel 1676, per la Sala dello Scrutinio di Palazzo Ducale, a Venezia. Pochi anni dopo fu insignito dal doge Alvise Contarini del titolo di cavaliere. Verso il 1684 fu tra gli autori delle decorazioni della chiesa di San Zaccaria, mentre nel 1687 divenne Priore del Collegio dei pittori veneziani. Dopo il ritorno a Venezia, dove nel 1700 apre una bottega, si iscrive alla Fraglia dei pittori veneziani nel 1708.
Andrea Celesti fu particolarmente attivo a Venezia, sulle coste trentine e veronesi del lago di Garda, oltre che a Brescia e dintorni. Chiamato presso Matteo Ponzone e Gabriele Mazzoni, fu in un primo momento stilisticamente attratto dalle grandiose panoramiche del Veronese e del Tintoretto. A Venezia conobbe Scipione Delai, la cui famiglia possedeva a Toscolano una cartiera e una ferriera fornitrice di bombe, ancore e corazze per la flotta della Serenissima. Le tele più significative del suo soggiorno veneziano sono rimaste nella città lagunare, a Palazzo Ducale – come il ritratto del doge Nicolò Sagrado ora nella Sala dello Scrutinio -, a Palazzo Erizzo, e nelle chiese dei Frari e di San Zaccaria. Prima di quel periodo, e successivamente vi ritornò, aveva lavorato nella provincia di Brescia, a Bagolino, Verolanuova, Palazzolo sull’Oglio, Capriolo, Desenzano, e in varie località della riviera del Garda, ma suoi paesaggi si riscontrano anche nel Veneto, ad Avio, Marostica, Treviso, Rovigo, Vicenza. La sua ricca produzione artistica interessò, dunque, gran parte dell’alta Italia, e gli garantì grandi fama e prestigio se si considera che, come riferisce il Mucchi, nel 1681 fu nominato Cavaliere dal doge Contarini: un privilegio raro per quei tempi. In quello stesso anno, Giovanni Muti gli scriveva in una lettera: “Ella sa emulare un Michelangelo nel disegno, un Raffaello nel colorito, nella varietà un Tiziano, nella naturalezza un Caravaggio”.
Pochi e vaghi sono i riferimenti cronologici che abbiamo su Celesti; non si conoscono neppure con certezza le date di nascita e di morte. Da una biografia redatta nel 1720 dal Melchiorri, si presume siano il 1637 e il 1712, ma non abbiamo ulteriori conferme. Sicuramente sappiamo che fu un esperto conoscitore di Tiziano. L’evoluzione artistica, verso gli ultimi anni del secolo, lo portò a dedicarsi ad una pittura in cui prevalevano composizioni affollate, linee trasversali e divergenti, personaggi a mezzo busto in primissimo piano, fisionomie a volte distorte dal forte scorcio prospettico. Nell’ultimo periodo si avvicinò ai fiamminghi e al virtuosismo luministico proprio di quella scuola, tanto nelle grandi quanto nelle piccole dimensioni.
Il pittore, ormai avanti negli anni, poteva dire di aver raggiunto la fama ed il successo, ma proprio in questo momento accadde l’inatteso: forse una improvvisa crisi mistica, forse il bisogno di staccare da una vita piena ma priva di spazi di silenzio e interiorità, spinsero il Celesti a pensare di ritirarsi dal mondo ed entrare in convento. Probabilmente ne parlò con i suoi amici, che accolsero la decisione come un fulmine a ciel sereno; l’ambiente artistico ne fu scosso, molti furono i parenti ed i colleghi che gli parlarono per dissuaderlo. Ne è un esempio il contenuto di una lettera del già citato Melchiorri, il quale, in termini accorati e vibranti, gli dice in definitiva: “No, non farlo”. Che il Celesti fosse o meno entrato in convento, poco sarebbe cambiato nella sua carriera di artista; questo è a tutt’oggi il nostro pensiero, ma non furono dello stesso avviso i suoi contemporanei che, alla fine, tanto fecero che riuscirono a dissuadere il pittore.
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