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di Lionello Puppi
Nell’abbagliante sfavillio di mostre-evento di cui rintrona il Bel paese, opportunità significative, occasioni autentiche, presentandosi con garbo discreto e sotto tono, rischiano di passare inosservate, e venire eluse. Una tal disdetta m’auguro non sia capitata all’esposizione del 2006, in una sala del Museo regionale di Messina, di una parsimoniosa selezione di prove d’Antonello, incentrata sul celeberrimo San Girolamo nello studio della National Gallery di Londra: un’opera di tal fama e soggetta a tal moltiplicazione di riproduzioni su cui sarebbe stato facile costruire la baraonda e la baldoria di un evento altrettanto rumoroso che insignificante. Ciò che grazie, all’intelligenza e al senso di responsabilità di chi seppe, con accortezza e abilità – in primo luogo Gioacchino Barbera -, ottenere dai severissimi guardiani del museo londinese il piccolo dipinto e immenso capolavoro, non è accaduto; ed il visitatore è stato posto al cospetto di un confronto, diretto e sconcertante, del San Girolamo, che si vuol realizzato all’indomani dell’approdo di Antonello a Venezia sul finire del 1474, con i suoi immediati precedenti siciliani, il polittico cosiddetto di San Gregorio, firmato e datato 1473 per la chiesa di Santa Maria extra moenia di Messina (e, ora, in quello stesso museo regionale) e l’Annunciazione, allogata il 23 agosto 1474 per la chiesa di Santa Annunziata di Palazzolo Acreide (e oggi in Palazzo Bellomo a Siracusa) e terminata due o tre mesi più tardi. Orbene, all’evidenza eloquente di quel confronto – davanti, voglio dire, alla centralità, scandita in poco più di un biennio tra Sicilia e Venezia, di quelle pitture entro l’avventura artistica di Antonello – io credo che parecchi topoi storiografici e critici ostinatamente radicati, siano, una buona volta, da rimuovere. A cominciare dal ricorrente, e inossidabile (più o meno manipolato che sia), coinvolgimento linguistico del messinese nella cultura figurativa fiamminga, ma senza escludere un ripensamento sulla necessità, in vista delle più alte affermazioni del fervido e sublime biennio lagunare, d’una preliminare esperienza, nel corso di brevi soste, risalendo via mare la penisola, a Pesaro e a Rimini, della lezione del Giambellino.
Se, a tal riguardo, le conclusioni delle indagini tecniche condotte da Villa e da Poldi in occasione della mostra alla Scuderie del Quirinale inaugurata nella primavera del 2006 (allegate al relativo catalogo), la dicevan lunga, è il divenire della paziente e spregiudicata costruzione prospettica come processo interno di ricerca che, nei tre dipinti esibiti a Messina, profondamente colpisce (e sarebbe stato perfetto se ad essi fosse stato possibile accompagnare la Crocifissione di Londra); ed è un peccato che, per tentare di spiegare gli stimoli che possono aver sollecitato, non si sia mai tenuto conto dell’invito di Eugenio Battisti (1985) a guardare exploit locali di un Maestro di piazza Armerina o di un Mauro Costanza, cui il magistero di un Fouquet non sembra ignoto.
Del resto, Antonello, appena giunto a Venezia e quando da poco aveva posto mano alla Pala di San Cassiano, già vien da Matteo Colacio annoverato tra i grandi prospettici: con una tempestività che sarebbe forza avvertir rabdomantica, se non ci interrogassimo – almeno – intorno all’eventualità che, una simile fama, preesistesse all’avventura lagunare: che, anzi essa fosse tra le motivazioni dell’invito, e della commissione di Pietro Bon, al quale – come a suo tempo ho provato – le occasioni di indagare a Messina e di guardarsi intorno, non mancavano, ma già, proprio il Colacio, ne sapesse qualcosa. Il che apre orizzonti finora inesplorati e tanto più suggestivi quando si tenga conto delle relazioni che il personaggio intratteneva con le comunità dei siciliani a Venezia e , al contempo, con gli studia humanitatis della serenissima impegnati nello studio progettuale della retorica ciceroniana, la cui rappresentazione visiva coglievano, precisamente, nella costruzione prospettica esaltata, come ampiamente provato da Chiara Savettieri, dalla tecnica dell’intarsio.
Un’ipotesi di lavoro, codesta, che mi par sia stata preventivamente accantonata nella preparazione della succitata mostra nelle Scuderie del Quirinale: la quale, anzi, è stata realizzata nella rinunzia a qualsivoglia ricerca originale, e si è risolta in una delineazione della figura del messinese attraverso una serie estenuante di analisi e confronti formali, prendendo atto –talora con supponenza – di quel tanto che, sin là, gli studi avevano prodotto su contesti, ma senza raccogliere la sollecitazione ad approfondire e ad andare oltre. Così, e tanto per dire, il rapporto tra Venezia e Messina – una volta di più segnalato dal sottoscritto su indizi pazientemente raccolti dalla fatica degli storici in senso lato e da originali esplorazioni archivistiche – non ha conosciuto alcun ampliamento della ricerca: è stato, per dir così, scontato ma per trarne conclusioni (relazioni tra la committenza veneziana e la bottega di Antonello, e, al di là della morte del pittore, col figlio – che si tenta addirittura, di identificare con “Jacometto Veneziano”! – e con i vari Antonello da Saliba, Pietro da Messina ecc…) che sarebbero state ben più credibili se sostenute dal riconoscimento, fondato sulle carte d’archivio, di trame concrete e solide di incontri. Nomi, cose; e se è un fatto che gran parte del patrimonio archivistico siciliano è purtroppo andato perduto, una lettura accorta delle carte trascritte dai vari Di Marzo, La Corte Cailler, e altri ricercatori locali, incrociata con dati emersi da fondi veneziani (e padovani) o ancor non affiorati ma da perseguire, qualcosa avrebbe potuto dirci di non aleatorio (e, certamente ci dirà). Ma intanto siamo ai soliti repertori: travasati dalle pagine diligentemente collezionate dai soliti Di Marzo, e La Corte Cailler, e senza alcun diretto controllo dei rarissimi documenti sopravvissuti ( lo deduco dal caso ducale di Galeazzo Maria Sforza a Leonardo Botta, suo oratore in Venezia, addì 9 marzo 1476, e dalla lettera di Pietro Bon a Galeazzo Sforza sette giorni dopo, il cui mancato controllo, per assumerne tout-court la trascrizione dal Beltrami nel 1894, è denunciato dalla ripresa identica della posizione archivistica offerta più di un secolo fa, da quello studioso: Milano, Archivio di Stato, pittori, di guisa che chi volesse verificare direttamente e sul serio quei documenti, non li ritroverebbe mai. E se, invece, in quello splendido, e ancor non appieno sfruttato, Archivio, cercasse la Cartella 98 – e ne estraesse il Fascicolo 6 – Fondo Autografi, lì avrebbe sott’occhio in quattro e quattr’otto, e potrebbe raffrontarli all’edizione ottocentesca).
Nomi e cose, dunque, che valgono il raggio dei milieu frequentanti e il circuito della committenza, anzitutto; e, poi la dimensione del collezionismo e le sue preferenze di temi e di soggetti, con la conseguente attivazione di una produzione al modo di Antonello, che, oltre la ritrattistica, privilegia il tema della Vergine annunciata (la provenienza veneziana e padovana rispettivamente, delle versioni di Palermo e di Monaco con replica di Antonello da Saliba alle Gallerie dell’Accademia di Venezia) o del Cristo morto (la versione oggi al Correr; la replica ancora di Antonello da Saliba, In Palazzo Ducale): ma l’espandersi poi, dalla Sicilia verso la Spagna, assai per tempo, dell’attenzione al maestro messinese.
La provenienza granadina del Cristo Cook, ora al Louvre, vorrà pur dire qualcosa, e meno del procacciamento, da parte del Cardinal Rodrigo de Castro, nella seconda metà del Cinquecento per le sue raccolte di Monforte de Lemos caratterizzate da cose di gusto ponentino (l’Adorazione dei Magi di Hugo van der Goes, ora presso la Gemäldegalerie di Berlino, ad esempio) – e vedi, dunque, il caso di una lettura per tempo in quella chiave, di Antonello -, del Cristo morto attualmente al Prado: siccome inducono a ritenere gli studi di Fernardo Checa Cremades, ignorati dai curatori della mostra alle Scuderie del Quirinale, non meno che uno specifico contributo del sottoscritto.
Ma, in tema di collezionismo e sia pur in momento più avanzato, non sarebbe stato opportuno, in vista della preparazione di una grande mostra fotografica, far chiaro sulla drammatica vicenda esterna del capolavoro di San Cassiano? Catturato e dirottato ad una prima stazione britannica da Feilding, come asserito da Waterhouse, o intercettato da Giovanni e Giacomo Van Verle e spedito subito ad Anversa, giusta l’affermazione del Ridolfi? E nel contesto, allora, di un gigantesco commercio clandestino di quadri, i cui sintomi trapelano dal ricorso dei suddetti Van Verle ad almeno quattro eteronimi, nel momento in cui a Venezia figurano esclusivamente come commercianti di pesce in conserva, e di vini, e i documenti pubblici di Anversa pressoché ne ignorano l’attività di collezionisti e mercanti di quadri constatata, oltre che al Ridolfi dall’Hollar? Un enigma di vasta portata, certo: ma che intrappola l’avventura nel tempo dell’opera di Antonello più incisiva nella storia dell’arte a venire. Ma sono uscito -temo – dal seminato che avevo disegnato in esordi (il nodo 1473-1475); e, tuttavia il sugo di quel che volevo dire, resta: che puoi uscire da una piccola mostra stimolato e infervorato, e da una grande mostra infastidito e mortificato.
Antonello da Messina, il prodigioso mistero va sciolto in Sicilia
Del resto, Antonello, appena giunto a Venezia e quando da poco aveva posto mano alla Pala di San Cassiano, già vien da Matteo Colacio annoverato tra i grandi prospettici: con una tempestività che sarebbe forza avvertir rabdomantica, se non ci interrogassimo – almeno – intorno all’eventualità che, una simile fama, preesistesse all’avventura lagunare: che, anzi essa fosse tra le motivazioni dell’invito