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Nel 1900, a ventun anni, Ardengo Soffici parte dalla Toscana per Parigi con l’intenzione di visitare l’Esposizione universale. Nella Ville lumière si fermerà invece – salvo una breve parentesi – sino al 1907. In questo arco di tempo, conosce Apollinaire, Picasso, Braque, Gris, Rousseau, Derain, Matisse, diventa un protagonista della vita culturale sulle rive della Senna ed è di fatto il principale trait d’union fra le avanguardie artistiche d’Italia e Francia.
In patria, il Nostro torna in un alone di fascino e di carisma, “circondato – ricorderà l’amico Prezzolini – da un’aureola di voci straordinarie, misteriose e sinistre… Avviluppato dai riflessi della metropoli decadente e ribelle, col suo volto che rassomigliava a quello di Baudelaire, pareva ricondurre fra noi l’arbitrio, l’immoralità, il disordine e l’anarchia”.
Ardengo porta in Italia l’esperienza cubista, sia a livello teorico – con un articolo su Picasso e Braque scritto per La Voce – che nell’ambito di una personale indagine pittorica. Il 1912, anno in cui egli sperimenta a fondo la rivoluzionaria tecnica (in quadri come Scomposizione dei piani di un fiasco e Scomposizione dei piani plastici), vede però anche i primi passi della sua transizione verso il Futurismo (Scomposizione dei piani di un lume), a testimonianza di un’inesauribile volontà di ricerca.
Eppure Soffici era stato, dei futuristi, uno strenuo oppositore. Memorabili le risse fiorentine al caffè Le Giubbe rosse e alla stazione di Santa Maria Novella, avversari quelle teste calde di Boccioni, Carrà, Russolo e Marinetti, giunti in Toscana apposta per menar le mani contro di lui, colpevole di averli ferocemente criticati.
Il Futurismo a cui egli infine approda è peraltro un Futurismo sui generis. Nei dipinti dell’epoca brillano per assenza proprio quella simultaneità, quel dinamismo plastico che contraddistinguono le opere dei suoi colleghi. Tanto che molti autorevoli critici hanno preferito parlare, a proposito di tale produzione sofficiana, di Cubofuturismo.
“Riconoscevo nel Futurismo – preciserà in seguito egli stesso – un impeto lirico e un’audacia innovatrice che rappresentava una ventata d’aria fresca e insieme uno squillo di sveglia per le energie creative, assopite o inclinate a poltrire nella comodità di estetiche e di modi d’arte ormai usati e perenti… Del Futurismo non condividevo però né il rifiuto del passato, che è la radice del nostro essere presente, né il paralogismo dozzinale del dinamismo plastico (e della sovversione grammaticale); né infine il clamore pubblicitario all’americana, incentivo alla volgarità”.
In realtà, la principale motivazione della sua scelta è, per così dire, ideale e “patriottica”: egli è convinto che i futuristi possano riportare l’Italia al centro dell’arte mondiale, superando addirittura i “cugini” cubisti. Il Futurismo, Soffici ne è certo, può trionfare nella sfida dell’avanguardia per “una più grande indipendenza nell’interpretazione delle forme del reale”, relegando i pur stimati Picasso & C. al ruolo di comprimari; e ciò grazie a “una più frequente compenetrazione dei piani, un’audace rottura degli schemi figurativi, una moltiplicazione prismatica delle facce delle cose, una variazione di toni e di gradi nel chiaroscuro”.
Ardengo il futurista rimprovera però a Marinetti e seguaci, come già abbiamo visto, il “rifiuto del passato”. Egli cerca al contrario, arrovellandosi davanti a una tela bianca o vagabondando inquieto per le colline della sua Toscana, il segreto punto d’incontro tra passato e futuro.
“Mentre meditavo intorno al modo più acconcio di conciliare nell’espressione pittorica di me stesso i due principi della modernità formale e della tradizione – racconta -, mi avvenne di notare durante le mie passeggiate per le strade dei dintorni alcune curiose pitturette a guazzo che i bottegai usavano allora fare eseguire da qualche decoratore o imbianchino del luogo, raffiguranti questo o quel genere che si vendeva: salami, prosciutti, filoni di pane, forme di cacio, fiaschi di vino, bottiglie di liquori e bicchieri, fette di cocomero e popone, fruttiere colme di pere, susine, arance, uova, eccetera… Erano immagini ingenue, disegnate e modellate grossolanamente, colorite con impensati accostamenti di toni; ma nel loro insieme avevano qualche cosa di talmente spontaneo, genuino, sincero, da fare pensare ai nostri primitivisti e quattrocentisti; per esempio a Giotto, a Paolo Uccello”.
Nella rivelazione di questa primordialità possiamo individuare l’inizio della svolta verso un’arte realistica e classica, verso un’arte cioè “tradizionalmente italiana”.
Poi, la guerra. Soffici, che vi partecipa da volontario, è ferito e verrà decorato al valore. Le drammatiche vicende belliche non lasciano nulla di immutato: “Sono uscito dalla guerra un altro uomo” confessa Ardengo. Il 1919 è l’anno in cui la grande svolta si completa in via definitiva. La scelta si inserisce senza dubbio nel clima generale di quella stagione della cultura italiana ed europea che reclama un ritorno all’ordine: si tratta, tuttavia, di una scelta profondamente personale, sbocco inevitabile di un itinerario lungo e tormentato.
Ecco l’artista abbandonarsi a “un’appassionata riaffermazione delle ragioni della nostra storia”, accompagnata ad una severa autocritica: “Molti di quegli errori che scoprivo… quei teorismi, quegli estetismi, quelle complessità metafisico-ironiche deformanti ed oscuranti nella lirica e nella pittura: tutto ciò insomma che allora vedevo tirato in ballo, così sciaguratamente, che altro era, in fin dei conti, se non una corruzione – troppo abominevole, è vero – di quanto io stesso avevo contribuito a divulgare negli anni innanzi; o di tentativi audaci di cui avevo, anche, dati numerosi e clamorosi esempi?” (Rete Mediterranea, 1920). Da ciò, “una ribellione del mio istinto di probità estetica, del mio gusto, del mio intero organismo mentale e poetico”.
Ardengo non rinnega però l’esperienza delle avanguardie: ne ripudia gli eccessi. Annota Giulia Ballerini nei Quaderni Sofficiani: “Tra le differenti valenze di significato che assunse l’idea di ‘classico’ in questi anni, Soffici sembra accordarsi con quel filone al quale afferivano anche Carrà e Sironi, di concerto con le idee critiche di Margherita Sarfatti: artisti che, avendo conosciuto l’esperienza futurista e la cultura francese, cercarono di superarne gli esiti, ma di conservarne le conquiste essenziali” con una mediazione “tra vecchio e nuovo, per evitare qualsiasi sterile e pedissequa imitazione del passato”.
Soffici non crede, come altri, alla possibilità del recupero di un valore universale ed eterno dell’arte, ad un’assimilazione dell’antico senza i necessari aggiornamenti. Individua nella natura, nel vero visibile lo scrigno cui attingere per ambire ad una classicità calata nel presente. Nel 1921, in una lettera a Carrà, perentoria e accorata, così scrive: “Il primo e più importante principio di tutti i classicismi consiste nell’ordine di studiare e interpretare la natura attuale… Perché non fai qualcosa di ciò che ti vedi intorno, qualche cosa che vedi in campagna ecc.? Codesto mondo oscuro, astratto, rinchiuso mi par che debba farti perdere alla fine il senso di quello meraviglioso in cui viviamo. E non dirmi che gli antichi vivevano pure così concentrati in qualche concetto interno di bellezza: è un’illusione. La storia dovrebbe dimostrarti il contrario, se la ricerchi bene e senza pregiudizi”.
In un’altra occasione, ribadisce che “la natura è la sostanza stessa dello spirito artistico; non stanca mai, non muta mai: e le opere dov’essa vive trasfigurata idealmente dal genio sono quelle che partecipano quel suo carattere e pregio d’eternità. Tutto il resto è dilettantismo, virtuosismo più o meno interessante”.
Sarà egli stesso a definire la propria pittura con il termine di “realismo purificato”. E a chi lo rimprovera di aver tradito gli ideali di un tempo, a chi continua ad equivocare sulle ragioni di una scelta che egli considera invece tanto ovvia quanto sofferta, risponde, con una veemenza che non ha nulla da invidiare a quella delle spavalde stagioni dell’avanguardia:Macchina indietro? Niente affatto! Non ho alcun gusto per i conservatorismi o i ‘ritorni’ al passato che vedo oggi in giro, e sono, ripeto, per tutte le novità. Macchina avanti, perciò; soltanto, non per i fossi e i precipizi, con un guidatore idiota o ubriaco! E’ quanto dire che, al ripigliar del cammino, io mi sento a un tempo solo e più in armonia con l’umanità. Diverso e più me stesso che mai. Perché, se resistere alla corrente può allontanare da molti, la sorgente inesauribile della vita unanime m’è assicurata”. (enrico giustacchini)
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