di Federico Bernardelli Curuz
[L’]epopea della colonizzazione dell’America, della corsa all’oro e delle epiche battaglie tra visi pallidi e pellerossa. I tanto amati spaghetti-western e i più classici film di John Wayne hanno da sempre riscosso un grande successo. Sono capolavori che pongono le proprie fondamenta sull’avventura, sulla lotta tra l’uomo e la natura selvaggia, sul coraggio, sulla solidarietà, sull’amore e sulla guerra; il tutto impreziosito da sconfinati paesaggi e da scenografie mozzafiato. E proprio come questi, ma molto prima, e cioè nella seconda metà dell’Ottocento, notevole favore di pubblico e curiosità desta la cosiddetta “Western painting”, ovvero la pittura che ritrae paesaggi dell’ovest dell’America.
Quest’arte “di frontiera” nasce per esigenze prettamente pratiche. Pittori e fotografi si aggregavano alle prime spedizioni federali verso l’inesplorato West – volute dal governo americano per poterne ricavare una mappatura della zona, per conoscere le popolazioni autoctone e per collocare in tali luoghi vie per importanti traffici commerciali – e, durante il viaggio, immortalavano paesaggi e scene particolarmente significative che testimoniano i primi contatti con gli indiani di quelle zone. La documentazione ottenuta durante l’esplorazione veniva venduta a riviste o a privati, costituendo un mezzo divulgativo di indubbia efficacia.
Gli abitanti dell’America orientale rimasero sconvolti ed affascinati da questi scenari che, secondo Brian W. Dippie, avrebbero rappresentato per la maggior parte di loro “il luogo in cui si realizza il sogno del Nuovo e del Vecchio Mondo: trovare una vita migliore in una terra migliore”.
Tra i maggiori esponenti del genere spicca Albert Bierstadt (1830-1902), nato in Germania, a Solingen, e trasferitosi successivamente a New Bedford, nel Massachusetts. Egli predilige la pittura di paesaggi. I soggetti, per mezzo della sua impostazione romantica, si animano, pervasi da un’atmosfera carica di emozioni e, molto spesso, portata all’estremo. Illustre esempio dell’abilità di Bierstadt è il dipinto Tempesta tra le montagne (1870 circa). Il paesaggio sembra perfetto per fare da fondale ad una scena di carattere epico. Una apparentemente facile rappresentazione di una gola tra le Montagne Rocciose è come se diventasse, in realtà, il teatro di uno scontro tra le forze del bene e quelle del male. Un banco di nuvole di un candido color panna pare scontrarsi con un cupo gruppo di nubi di un grigio scuro, evocando le angosce più recondite dell’anima. L’impatto crea una voragine, e da tale vuoto si intravedono le lontane vette innevate. Questo virtuosismo pittorico permette all’artista di rompere la bidimensionalità e di dare alla tela quella profondità e quel piano prospettico che ancora lasciano ammirato l’osservatore.
Il romanticismo forse eccessivo che contraddistingue le sue creazioni ben presto diventa un “accessorio” che nasconde la realtà e le impedisce di manifestarsi. Così nel tempo passa di moda lo stile di Bierstadt, che cede il passo ad una pittura più ancorata al vero, attenta a riprodurre azioni o situazioni che coinvolgono spesso cow boy o indiani. “E’ un’espressione – spiega Dippie al riguardo – visiva dei valori americani. Celebra la vittoria dell’ovest e i sacrifici e il coraggio dei pionieri bianchi. E’ trionfalista. Ma, al contempo, lamenta la scomparsa delle culture native”.
E’ Frederic Remington colui che riveste in pieno tale concezione. I colori divengono più pastellati, le tinte si chiariscono; i fondali sono solitamente tenui, i tratti sullo sfondo poco marcati, a differenza delle figure umane che animano la scena le quali, diversamente, sono molto dettagliate, dai colori più vivi. Il motivo di tale scelta stilistica è presto detto: queste opere, come già esplicato, puntavano ad accentuare un carattere divulgativo, e spesso erano prettamente legate allo studio di usi e costumi dei pellerossa.
I soggetti sembrano miniature, curate nei più piccoli particolari. Molto simili nei tratti sono le illustrazioni, altrettanto suggestive e di successo, riproposte negli ultimi decenni da cartoonist del calibro di Aurelio Galleppini (Galep), l’“inventore”, dal punto di vista grafico, di Tex Willer, il mitico personaggio ideato da Gian Luigi Bonelli.
Ne Il prigioniero di Frederic Remington sono racchiuse le caratteristiche principali di questa nuova corrente artistica. Il fondale è bicromatico. Il turchese degli sporadici ciuffi di sterpaglie si fonde con le ombre delle rocce e il colore delle montagne in lontanza. Il colore predominante è l’ocra del deserto, che riempie la quasi totalità della superficie pittorica. Dal nulla compaiono numerose figure disposte su due colonne. E’ una pattuglia indiana, probabilmente di ritorno da un combattimento. La loro posa è austera; a testa alta tagliano la scena trasversalmente rispetto all’osservatore, scortando il prigioniero – un soldato con le mani legate e con un cappio attorno al collo, retto, all’altra estremità, dal pellerossa che gli è accanto -. I vivi colori degli abiti e i contorni nitidi dei profili di uomini e cavalli contrastano con il flebile sfondo.
La minuzia dei particolari è il vero punto di forza dell’opera remingtoniana. Le vesti indiane sono perfettamente riprodotte. Si distinguono le singole frange di pelle che partono dalle maniche e dalla canna del fucile del primo guerriero e il celebre copricapo tradizionale con le piume d’aquila che fasciano il capo del secondo cavaliere.
Un’attenzione non minore è riservata al prigioniero. Immerso nella polvere alzata dalla marcia dei cavalli, procede con passo deciso, sconfitto ma non vinto. La divisa racconta le vicende dello sventurato. Egli, catturato a seguito di un probabile scontro
– come possiamo dedurre dalla giacca sgualcita, segno di lotta – è costretto ad un’interminabile marcia immerso nella polvere alzata dalla carovana – gli stivali neri sono ormai quasi completamente ricoperti di sabbia -, sotto il sole cocente
– per contrastare il caldo l’uomo è riuscito almeno a sbottonarsi la parte alta della camicia -.
E’ un quadro che sembra raccontare un mondo difficile da domare, così come hanno fatto le pellicole di John Ford e di Sergio Leone o gli albi di Bonelli e Galep. Tutti coautori del successo che rende immortale il fascinoso mondo del selvaggio West.