di Gualtiero Marchesi
Cristoforo Munari non faceva differenze. Tra fine Seicento e inizio Settecento aveva ben compreso, lui, ciò che qualcuno fatica a capire ancor oggi. Superbo pittore di nature morte, elevava con ugual entusiasmo al rango di protagonisti della rappresentazione nobilissimi liuti, buccheri trinati e tavole imbandite, traslocando il cibo dai gironi più bassi all’empireo. Le mirabilie d’intreccio di un lussuoso tappeto d’Oriente non riuscivano a far sfigurare gli umili frutti della terra. L’intonaco della cucina acquisiva dignità non inferiore a quella della parete ridondante del salone delle cerimonie. A monte, stava la convinzione che tappeti e frutti, cucina e salone, non fossero che facce diverse, ma complementari, di una medesima medaglia, affratellate dalla filosofia dell’aderenza al reale, ma pure della metamorfosi delle cose nella leggerezza della metafora. E la clientela apprezzava: il Gran Principe Ferdinando de’ Medici, ad esempio, si fregava le mani per la contentezza, commissionando – lui, all’epoca il maggior collezionista di nature morte – dodici tele al maestro.
Mi torna in mente Munari – e penso, in particolare, allo straordinario dipinto che presentiamo in questa pagina di Stile – quando osservo la creazione-rielaborazione del mio talentuoso discepolo Paolo Lo Priore. Gli agrumi – arance, limoni, mandarini -, cristallizzati nella canditura, riverberano le stesse luci. I volumi ordinati, le geometrie rigorose nella perfezione delle rotondità, sono assolutamente di concezione munariana, ormai oltre le sovrabbondanze barocche, disponibili ad una luminosità uniforme, che trae dal buio la materia e la isola nella stupefazione della profondità. L’illusione è completa: e nel travaso tra le due opere tutto sembra fondersi, nel comune effluvio di cromie, di sensazioni tattili, di aromi vellicanti di scorze. Tra la via Emilia e le lande siciliane la distanza si fa minima, sino a scomparire. Il cuore dolce di ricotta pulsa nell’involucro protettivo dei frutti, all’uopo predisposto da Lo Priore; pulsa ma si trattiene, non deborda, ubbidiente ai dettami post-barocchi di cui si diceva. Gemme di uvetta e cioccolato rimbalzano le loro fragranze, or qua e or là, secondo una casualità solo apparente. Le foglie esibiscono, nello spolverio dello zucchero, la discretezza di un’imbiancatura che richiama le intimità soffuse dei giorni di Festa. L’atmosfera si fa raccolta, empiendosi di tepori natalizi. E allora, buon Natale. Buon Natale a tutti.