di Lionello Puppi
[I]l 6 gennaio 1572, Giambattista Pigafetta, nunzio di Vicenza presso la Serenissima, scrive ai Deputati della sua città assicurandoli d’aver “dato le lettere delle Magnificenze Vostre a misier Andrea Palladio, qual m’ha detto che risponderà questa sera alle Vostre Magnificenze, et che sarà di lì infra doi giorni”. Quale fosse il contenuto di quelle lettere, non è difficile immaginare. Il cantiere della “così bella et honorata fabrica” della loggia del Capitaniato andava per le lunghe, e continuava ad assorbir danaro: se il 21 ottobre dell’anno prima pareva giunto “talmente a buoni termini […] che alla festa di San Martino [l’edificio] sarà coperto” – e, all’uopo, venivano stanziati 400 ducati -, tra il 28 novembre e il 23 dicembre era stato necessario sborsare altri 600 ducati per concludere una buona volta i lavori: e Palladio, che ne aveva la responsabilità, se ne stava, invece, a Venezia per godere i “molti vantaggi […] e il continuo guadagno che gliene viene” (tale era la voce che circolava; e l’aveva pur raccolta l’ambasciatore cesareo comunicando al suo sovrano, che lo avrebbe voluto impiegare nella costruzione della Neugebäude presso Vienna, i suoi dubbi intorno alla disponibilità dell’architetto a trasferirsi). Dovevano, dunque, costituire una sorta di ultimatum le “lettere” delle “Magnificenze” beriche ma, se miravano a rimproverare ad Andrea la preferenza accordata al corteggiamento allettante dei patrizi lagunari per il nocumento dei suoi signori naturali, mancavano il bersaglio.
Lancinanti, insopportabili ambasce straziavano in quei giorni, l’animo di Palladio: che, tuttavia, subito dopo aver letto il messaggio dei Deputati vicentini, lo stesso 6 gennaio, come promesso, s’affretta a rispondere. Giammai sarebbe venuto meno al suo dovere, protesta: “ma essendomi mancato il maggior mio figliolo, in modo mi ritrovo impedito et travagliato sì dell’animo come del corpo, tanto più per non esserli ancora stata data sepoltura, ch’io non me ritrovo né tempo né modo di poter far cosa alcuna”. Ciononostante, “in un giorno di questa settimana me ne venirò a Vicenza”, assicura; ma, se davvero intendeva guadagnar sollecitamente i Berici, nel turbamento e nella confusione dei sentimenti e dei pensieri, lascia cader il proposito e, anche fisicamente, si smarrisce, scompare: o non si fa più trovare. Il nunzio Pigafetta si preoccupa, ma non sa a che santo votarsi quando riceve una nuova lettera spazientita il 13 gennaio e, recatosi “alla stanza ove era alogiato misier Andrea Palladio”, non solo non lo incontra, ma si sente annunciare, “ivi in casa, ch’el giorno dapoi la morte del suo figliolo, si partì con dir di venir a Vicenza”: dove, invece, continuavano ad aspettarlo con nervosismo crescente.
E torna e torna, il buon nunzio, “all’alogiamento di misier Andrea Palladio” sinché, finalmente – ma siamo al 28 febbraio -, “m’han detto ch’io l’haverei ritrovato a Ca’ Morosini ove era a disnar”. Se vi si reca, di corsa in affanno, giusto per sentirsi annunciare che “era partito”, né lo rintraccia, “in corte et in piazza”, sarà Palladio in persona a farsi vivo il giorno appresso, e par rasserenato, tant’è che, nei vuoti dello sparimento, aveva recuperato lena bastante a ritagliar alcune “sagome” da mandare a Vicenza: che avrebbe raggiunto “luni o marti prossimo”.
Dal matrimonio di Andrea, nel 1533, con la figlia di un modesto artigiano qual era stato anche il padre del futuro architetto, Pietro della Gondola, Allegradonna – e noi potremmo dir Letizia -, erano venuti alla luce cinque rampolli cui erano stati imposti i nomi (in spregio segreto della vocazione filoimperiale dell’aristocrazia vicentina?) di antichi eroi portatori di repubblicane virtù: Leonida, Marcantonio, Silla, Orazio, Zenobia. Maritata quest’ultima ad un orefice di qualche reputazione, Giambattista della Fede – e mentre Marcantonio, che pareva avviato a batter il cammino del genitore, cominciando dalla pratica dell’artigianato, piantava ben presto in asso la famiglia, con cui mai più si concilierà, per mettersi accanto ad Alessandro Vittoria e seguir poi Bartolomeo Ridolfi in Polonia -, Palladio si era preoccupato di far impartire agli altri rampolli maschi un’istruzione superiore.
Ma se aveva indirizzato Silla e Orazio agli studi giuridici, da Leonida s’attendeva replica mirabile del suo stesso destino: ed era Leonida il “figliolo” che la morte gli aveva strappato in quei funesti primi giorni dell’anno di poca grazia 1572: anche se – veramente; e come vedremo subito – quel giovane inquieto alle sue speranze s’era già sottratto brutalmente poco più di due anni prima, in una congiuntura e con modi che irradiano una luce sinistra sulle circostanze possibili della sua stessa fine. Si sarà fatto caso che, nella lettera con cui, il 6 gennaio, Palladio tentava di spiegare ai Deputati di Vicenza l’angoscia e la paralisi che lo avevano attanagliato, e poi il Pigafetta nella sua corrispondenza, tacciano sulle occorrenze del decesso del “figliolo”; tuttavia, Andrea si lascia sfuggire una parola – ma è come un lamento; un grido – su un dettaglio agghiacciante e ch’era ciò che più l’aveva sconvolto, né cessava di tormentarlo. “Per non esserli ancora stata data sepoltura”.
Orbene: la sospensione, atroce, dell’inumazione avrà pure avuto i suoi buoni motivi; se è a noi che tocca riconoscerli, non è il caso di fantasticare od arrampicarsi sugli specchi, solo che si rammenti la severità delle disposizioni del governo veneziano, costantemente preoccupato dal ricorrere delle epidemie, in materia igienica. Non sfuggirà, allora, la terminazione con cui l’11 giugno 1563 i Provveditori alla Sanità vietavano a qualsivoglia Autorità civile o religiosa di dar licenza di sepoltura ad “alcun corpo morto repentinamente né d’altra sorte de mallatia, salvo se non sarano stati amarati 4 o 5 zorni”, affinché “quelli morti de tre in quatro giorni et de repentina morte siano visti li corpi loro per el medico” sulla cui circostanziata “relatione”, una volta letta e approvata “per uno almeno delli Provveditori”, sarebbe stata espressa e comunicata l’autorizzazione al seppellimento.
Una lacuna nei registri dei necrologi dell’Ufficio di Sanità ci nega la possibilità di conoscere il giorno esatto del decesso di Leonida e, in ispecie, la causa di esso. E spiace, giacché l’aver stabilito, al di là d’ogni dubbio, che si trattò di incidente repentino, o al più consumato in tre o quattro giorni, spalanca uno scenario multiforme dove ci può star dentro di tutto: l’apoplessia, certo e anzitutto, ma anche l’avvelenamento o la ferita letale d’arma da fuoco o da taglio. E, poi: dove Leonida esalò l’ultimo respiro?
Nell’“alogiamento” del padre, dove ripetutamente si reca il nunzio Pigafetta, che lo definisce anche “casa”, inducendo al sospetto che Andrea, in quei giorni, anziché soggiornare – come soleva – nel palazzo di qualche amico patrizio (Jacopo Contarini, il più delle volte, ci assicura il suo primo biografo Paolo Gualdo), avesse preso ad affitto dei locali per trasferirvi, da Vicenza, la famiglia (v’è gente in “casa”, quando vi si precipita il Pigafetta che, a prova, rimette al plurale – “m’han detto” – le vaghe informazioni che riceve). Giova, adesso, far un salto all’indietro e planare, per l’appunto, a Vicenza.
Il 14 febbraio 1569, il “maggior figliuolo” di Palladio è nell’abitazione di un Alessandro Camera, dove si fa baldoria; ad un certo momento, però, la festa degenera, nasce un battibecco che diventa un tosto alterco, tra il padrone di casa e Leonida il quale non esita a passare ai fatti e a colpire ripetutamente al volto il rivale, lasciandolo privo di vita. “Factis aliquibus verbis cum dicto Alexandro – specifica il verbale della polizia municipale di Borgo San Pietro – Leonida ipsum vulneravit vulneribus de quibus inviso […] ob quae statim expiravit”.
Il reato, un delitto d’omicidio dovuto a futili motivi, è gravissimo, ed il Podestà veneziano provvede, in ossequio all’esercizio della giustizia penale spettante ai doveri della propria carica, ad avocare a sé e ad istruire il processo. Ma, a questo punto, convien fare attenzione e leggere tra le righe del dispositivo di sentenza che esaurisce tutto quanto ci è dato di sapere sul cruento episodio. Prima ancora, occorre confessare che nulla sappiamo della vittima: possiamo, però, almeno congetturare che appartenesse a famiglia inurbata alla fine del ’400 e attiva nel mondo della speculazione commerciale. Sarà stato, allora e verosimilmente, un mercante; di sicuro – la denuncia, s’è veduto, viene dall’autorità di polizia di Borgo San Pietro -, era vicino di casa della famiglia di Palladio che, all’epoca, s’era portata ad abitare in quel quartiere; doveva essere, se vogliamo esprimerci così, assai ospitale, visto che da lui si organizzano allegri festini e che ammette la moglie a parteciparvi, come apprendiamo dal laconico incartamento processuale: ma ha un suo senso dell’onore (o, per esser schietti, della proprietà: la moglie, non solo a quei tempi, è anzitutto cosa che si possiede); e ciò gli costerà la vita.
Torniamo ai fatti. Dopo il delitto, Leonida fugge e si nasconde da qualche parte: ne siamo resi sicuri dall’informazione esplicita onde il Podestà, avocata a sé la causa, s’era fatto premura di citarlo (“citatus”) e di farlo pubblicamente ricercare (“proclamatus”). In tutto ciò, niente che meravigli: a questo modo andavano simili cose. Stupisce, invece, il successivo comportamento del colpevole che inaspettatamente si costituisce, presentandosi alle carceri presso le quali viene ovviamente trattenuto, per render testimonianza alla Giustizia della verità dei fatti. Una volta di più, tuttavia, giova stare attenti: non siamo informati, in effetti, sulla durata della latitanza, quantunque paia d’intendere che fu breve, forse brevissima, e però significava una scelta in contraddizione con la decisione quindi intervenuta di mettersi a disposizione dell’Autorità giudiziaria.
Saranno arrivati, voglio dire, pressioni e buoni uffici da parte di qualcuno che sarà stato tanto più convincente in quanto potesse offrire garanzie rassicuranti sull’esito della faccenda? Della quale, dunque, Leonida fornisce la propria versione capovolgendo i termini della denuncia. E siamo al solito: cherchez la femme, la quale, nella fattispecie, veste i panni della moglie del Camera.
Una donna intraprendente. E’ lei che invita Leonida a spassarsela (“dum […] promisisset tripudiare cum dicto Leonida”) suscitando l’ira del marito il quale, dopo aver inveito (“prolatus aliquibus verbis”), si sarebbe avventato sul malcapitato menando colpi di pugnale all’impazzata e con tal furia da non lasciargli altra via di scampo che la difesa: estrarre, alla sua volta, il pugnale e colpire per non restare ucciso.
La deposizione del figlio di Palladio, quando pur si tenga conto dei termini sintetici cui è ridotta nel documento conclusivo che ce la confida, appare lacunosa ed incongrua. Lacunosa: Leonida elude ogni informazione intorno alla circostanza delle profferte della moglie del Camera – laddove la denuncia alludeva ad una gran baldoria (“tripudiabatur”) -, all’evidenza per isolare l’incidente da un contesto che lo avrebbe messo in cattiva luce. Incongrua: il rivale lo avrebbe addirittura ferito (ma le esibisce davvero le sue ferite? Non ci vien detto) e gli avrebbe impedito di sottrarsi alla sua furia (“non posset evadere nisi sine periculo eius vitae”) e però, a dispetto di tanta, e così aggressiva, rabbia, che pur non riesce a fuggire, trova il modo di snudare il pugnale (“fuit eidem necesse eius pugionem enudare”; dunque, girava armato, e gli è forza ammetterlo) e, soprattutto, riesce ad aver ragione dell’aggressore (“admenare contra”), colpendolo ripetutamente – nel volto, sottolineava la denuncia, ed è dettaglio odioso, e inquietante – e facendolo morto rapidamente (“statim”).
Lacune e incongruenze, tuttavia, non sembrano essere state contestate all’imputato. Semmai, il Podestà si fa premura di interpellare (“experiri”) qualche teste (“nonnullos”) a difesa (non d’accusa, si badi; né appare sentita la moglie del Camera, supposto pomo della discordia), il tenore delle cui deposizioni (come, verosimilmente, lo stesso verbale circostanziato della confessione di Leonida), registrate “apud acta maleficiorum” che sono andati perduti, ci resta ignoto; e procede, quindi, alla sentenza: ch’è di assoluzione piena dall’imputazione di omicidio volontario (“eundem Leonidam filium Andreae Palladii […] absolvimus ab imputatione praedicta”), senz’altra motivazione che un riferimento insistente alla spontanea costituzione (“sponte praesentatum”) e sorvolando financo sul reato di detenzione abusiva d’armi, anch’esso di gran gravità, come abbiamo visto in un precedente articolo dedicato all’infortunio milanese del figlio di Tiziano.
E allora? La giustizia, come ognun sa, è relativa e mai eguale per tutti, specie se ad amministrarla è l’arbitrio, se non assoluto, certo di larga discrezionalità, di un uomo solo – nella fattispecie, il veneto Podestà – il quale, per giunta e nel caso, di gatte da pelare ne aveva parecchie, e più grosse di una rissa tra un vile meccanico e un perdigiorno. Che se, poi, c’era scappato il morto, anche la vita, allora tal quale adesso, è valore relativo; e tant’era darglielo, quel valore, guardando la convenienza dei rapporti: dove, magari, sarebbe stato bello scoprire che la distinzione intellettuale poteva, entro un certo contesto, contar qualcosa, e valer da discriminante. Il fatto, viceversa, si è che Palladio serviva troppo ai disegni magniloquenti di lor signori: di impegni, pubblici e privati, civili e religiosi, ne aveva tanti da perderci la testa. Meglio non complicargli ulteriormente la vita.
Così, le mediazioni, i buoni uffici, le pressioni a far recedere Leonida dalla latitanza, che abbiamo sospettato, non poggiavano davvero sul vuoto; e sarà lecito, dunque, immaginare il padre – lui, Andrea, che si trovava a Vicenza in quei primi mesi del 1569 – tutto preso a darsi da fare, sconvolto, sia mettendo in gioco quel tanto di prestigio sociale che aveva conseguito e coinvolgendo ogni sua personale relazione, sia rassicurando per trarre il figlio prediletto dai pasticci? Ma se la Giustizia – quella, intendo, con la G maiuscola – poteva esser elastica e manipolabile, quella che uno si illude di poter fare da sé, è inflessibile, testarda e di memoria lunga. Sarebbe insolito, e strano, che i congiunti di Alessandro Camera non avessero giurato di fargliela pagare, a Leonida e ai suoi. Lo spostamento di Andrea a Venezia – con quel “figliolo” di sicuro, ma forse con tutta la famiglia – che abbiamo constatato indietro, potrebbe esser stato suggerito dal tentativo di portarsi quanto più possibile lontano dal luogo della temuta vendetta. E torniamo, così, al gennaio 1572, riproponendo il quesito che già abbiamo posto: sarà stata un’apoplessia, o il veleno o il pugnale, a por fine repentinamente alla vita di Leonida Palladio? Il Podestà che lo giudica e assolve porta il nome di Tommaso Morosini. Orbene, chi legge queste pagine non avrà dimenticato che, nei trambusti dell’animo e della mente che prostrano Andrea in seguito alla morte del figlio, viene riferito al nunzio Pigafetta che l’architetto (per “disnar”) è riparato in Ca’ Morosini.
Per concludere, una postilla, a sunteggiare quello che dovrebbe essere uno dei nodi capitali del Convegno internazionale di studi che, dal 5 al 10 maggio prossimi, si dipanerà tra Padova, Vicenza, Verona e Venezia, costituendo l’evento centrale delle celebrazioni per il V Centenario della nascita di Palladio. Nei propri scritti Andrea esclude ogni riferimento alle contingenze della sua vita quotidiana e reale, a cominciare dall’origine socialmente dimessa della famiglia, e dalla tormentata pratica artigianale dell’adolescenza (la fuga a Vicenza dalla natia Padova), e pur dovettero essere contingenze sofferte nell’intimo in maniera straziante. Per i posteri, lui doveva essere chi, “da naturale inclinatione guidato”, avrebbe restituito all’architettura dei suoi tempi e dell’avvenire la “grandezza romana”; non traspone, pertanto, nel suo trattato dei Quattro Libri dell’Architettura uscito nel 1570 (incompleto! Quasi una nemesi), la realtà incompiuta e drammatica delle sue fabbriche così com’erano scaturite dall’arduo confronto di progetto, cantiere, sito, compromessi con la committenza, ma ne offre un completamento ideale, astratto, ribaltandone l’inquietante frammentarietà nell’ordine delle proporzioni e dell’armonia che, scorrettamente, hanno rappresentato la referenza privilegiata degli studi palladiani. Di Leonida, Andrea ricorda solo – nel momento stesso in cui, di Marcantonio, il “figliol prodigo” che lo aveva lasciato per avventurarsi, con le sue sole forze, nel mondo, cancella ogni memoria – lo squisito abito letterario ed un talento architettonico di cui, alla prova dei fatti, non aveva mai dato testimonianza (“Leonidae architectonicen mire profitenti”).