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“Detesto l’astrattismo e l’espressionismo . A Matisse preferisco i fumetti di Tintin” – Balthus
[U]na strenua resistenza al Modernismo – negli anni in cui, dopo la tempesta devastante delle avanguardie, ogni forma della tradizione pareva un tradimento ai presupposti dell’arte intesa come procedere. L’arte progressiva celebrava esclusivamente – sul rettilineo del tempo – l’allontanamento dalla tradizione e la continua invenzione, quasi che condividesse le stesse modalità di procedere della scienza e della tecnica. Balthus resistette. Riuscì ad imporre, anche negli anni di dominazione dell’astratto – quando lui e l’amico Giacometti erano considerati oscuri brontosauri, affetti dalla torbida malattia regressiva – una pittura di figura, solida nei colori e lieve negli effetti, ambigua nell’atmosfera e metafisica nella globalità dell’opera. Il suo orizzonte era dominato, com’è noto da adolescenti in boccio, bambini, pesci, gatti e da un lessico oggettuale che simbolicamente portava sulle tele un racconto sospeso, un’epifania, la rivelazione continua del dio feriale che sta nelle cose e che le suscita, le fa ribollire ogni qual volta il fisico umano passa dalla condizione statica dell’infanzia, dominata da un contiguità con l’assoluto – e i bambini si fondono creaturalmente con gli animali, il cielo, le forze aeree – all’adolescenza. E’ a quel punto che una luce torbida e seduttrice, quasi un’aura di sensualità tizianesca, si poggia sulle sue fanciulline in fiore, fino a dischiudere il mistero della stanza, il luogo di un inguine che non solo si prepara meccanicisticamente alla riproduzione, ma è accesso al tempio. Un tempio che il pittore rifiuta di risolvere provocatoriamente come Courbet in chiave anatomica e biologica – l’”Origine del mondo” dipinta dal francese è materialisticamente un bel pube ginecologico spalancato alla vista dell’osservatore – ma in una dimensione misterica. La piccola feritoia – non fauce animale – come punto d’accesso a un mondo sconosciuto è, potremmo azzardare, il primo taglio verso una dimensione-altra, un taglio che somiglia alle laceranti ferite inferte alle tele da Fontana. I surrealisti tentarono di annettere Balthus, conte di Rola – il suo vero cognore era Klossowski; era fratello del celebre scrittore Pierre, con il quale condivideva certi nodi simbolici e certe figure araldiche – al grande gruppo dei cultori dell’inconscio, come del resto accadde – pur senza successo – con Chagall. Ma il sulfureo Balthus – uomo di un’eleganza rara pur con vestiti consunti, ringhioso custode della propria autonomia – declinò ogni invito, giacché la sua pittura non era onirica, in lui la vita “no es suegno” inteso come libero gioco della mente che si manifesta attraverso la giustapposizione automatica dei diversi segmenti visivi. Lo spirito universale che alberga nelle cose e negli uomini si manifesta non già nel dormiente – come in certi personaggi biblici, cui gli angeli riversano nell’imbuto dell’orecchio segmenti di verità o incitamento alle azioni probe – ma in certi istanti della vita quotidiana vigile, quando le stanze s’acquietano e si realizza una santa alleanza tra oggetti, animali e uomini che favorisce la discesa di un attimo d’eterno. Balthus impronta la sua poetica a un’idea contraria all’istante dell’impressionismo che interpretava l’accelerato divenire del tempo. Il tempo è pertanto un’entità statuaria entro la quale l’essere non transita ma permane, in una dimensione che dal fisico s’apre al metafisico. In direzione della scelta di un tempo non lineare, furono basilari per Balthus gli “incontri” con Piero della Francesca – le cui opere furono copiate dal pittore franco-polacco, durante gli anni giovanili – e con Paolo Uccello, un artista che, al di là di intense atmosfere metafisiche (che sarebbero state particolarmente apprezzate dai surrealisti) introduceva nella propria opera segmenti narrativi sospesi. La copia per Balthus fu, ,come per certi artisti cinesi, elemento basilare non tanto per comprendere le regole compositive, quanto per scavare nel dipinto, per analizzarlo strato per strato annullando le evidenze superficiali per giungere al suo nucleo di verità essenziale e per eliminare la fuga verso la babilonia dei linguaggi, che è poi – nella modernità – rappresentazione individuale del mondo, priva di un respiro cosmico, di un accordo profondo con gli altri uomini e con la natura. Anche attraverso l’esposizione di alcuni significativi paesaggi, la mostra di Venezia, indica il percorso di Balthus in direzione dell’individuazione della potenza dello spirito nella materia. Le sue montagne devono molto alla tradizione artistica cinese, a quel procedere in direzione del vuoto taoista – che non è il gorgo del Nulla della civiltà occidentale – in cui le divinità si manifestano quando più intensa diventa la voce del silenzio.
NEL FILMATO UN VIAGGIO TRA LE OPERE DI BALTHUS
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