di Costanzo Gatta
Ha rifatto il trucco a Sant’Orsola, ha ripulito l’ombra di San Girolamo proiettata sull’altare della Madonna, ha ritoccato la barba di Melchisedech e messo mano agli altri Moretto di San Clemente. Ha riportato su tela, da pareti ammuffite, affreschi del Romanino, del Gambara e del Luini. Ha trovato stima nel generale Lechi, nel pittore Luigi Basiletti e nel re di Prussia. Ha avuto consensi e medaglie. L’Ateneo volle fargli scrivere i segreti dello strappo. Eppure il suo cognome – Speri – richiama solo quello del figlio Tito, eroe delle Dieci Giornate. Quando il 31 gennaio 1824 Giambattista Speri, fu Paolo, si sposa in Duomo con la ventiquattrenne Angela Tòrtima, è un sarto di 37 anni, nato a Montirone nel 1787. Quando il 14 maggio 1844 muore, a 57 anni, sui registri di S. Alessandro è detto “riattatore di quadri”. “Poco istruito, ma ricco di naturale ingegno – scrisse Ottavia Bonafin – apprese l’arte non facile, di riportare gli affreschi sulla tela e la esercitò con onore. Era anche discreto pittore”.
La svolta e la carriera di Speri è dovuta ai Lechi. La quadreria del palazzo di Montirone è piena di opere. Indispensabile un uomo fidato che le tenga d’occhio. Le credenziali dello Speri erano buone. Il generale Teodoro Lechi (1778-1866) lo aveva apprezzato come buon soldato napoleonico del suo paese, tanto da far da padrino al secondogenito, nato il 22 dicembre 1827 (e morto il 19 giugno 1829) lieto che Speri l’avesse battezzato Teodoro. Speri inizia a restaurare attorno ai 35 anni. I Commentari dell’Ateneo del 1829 citano il trasporto sopra tela “con nuovo metodo” di un affresco del Gambara, il “Serpente innalzato da Mosè nel deserto”, avvicinando lo Speri al veneto Filippo Balbi: “Con metodo forse non molto dissimigliante procedette il nostro Speri levando dai Chiostri mal guardati di Santa Eufemia l’emblematica figura del Salvatore nel Serpente di Mosè. Certo che l’occhio troverà dopo nella pittura scommessure, frantumi, emendazioni da farsi; non si potrà avvolgere questa tela senza ch’ella screpoli per avventura in alcuna parte; ma a ogni modo è gran lode di chi la invola ad intera ruina, producendo a la più lunga memoria degli uomini le opere dei grandi”.
Che lo Speri operi anche fuori Brescia lo sappiamo dai Commentari del 1834: “In Lodi precipuamente: dove, come si poté vedere da riputato giornale, giovandosi di quanto la chimica può suggerire a questi intendimenti, poté dar effetto lodevolissimamente col togliere dal muro un a fresco del celebrato Callisto Piazza”. Il testo elogia il “riputato ristauratore di quadri” che “da parecchi anni si studia nell’arte conservatrice di cui si è qui parlato”. Quanto a Brescia, “ …begli esperimenti ne porse in questa nostra città”: egli ha già strappato da casa Crivelli, in via Gabriele Rosa un affresco di Lattanzio Gambara. Raffigura due puttini (ma Panazza li chiama gemelli) che giocano. Li riporta su tela e li dona all’Ateneo. Sono ora a palazzo Tosio, nella sala dell’alcova detta anche celeste, dal colore della tappezzeria. E il dono viene inteso “come prova e caparra di altre consimili operazioni”, tanto che il segretario precisa: “E poco sarebbe il dono rispetto alla proferta ch’ei largamente ne fa: di manifestarci, cioè, e porre per disteso in iscritto i procedimenti, gli apparecchi chimici e le diligenze ch’esso impiega per riuscire a questo effetto.
L’Ateneo saprà apprezzare la generosa proferta”. Purtroppo non c’è traccia di questo scritto auspicato. A 50 anni, lavorando alle tele del Moretto, in San Clemente, ha momenti di gloria. Bisogna premettere che i Clementini, fin dal 19 marzo 1831, volevano staccarsi dalla parrocchia di Sant’Alessandro. Avuta autorizzazione di amministrarsi autonomamente, si riuniscono in Consiglio il 30 maggio e decidono radicali rinnovamenti del piccolo tempio. L’immobile stava andando in rovina; deperivano le opere del Moretto, che aveva abitato a due passi, era sepolto in San Clemente e aveva donato, per testamento, un “San Tommaso d’Aquino”. “Item legavit amore Dei reverendis fratibus Sancti Clementis Brixiae unam anconam seu quadrum super qua seu quo posita effigies divi Thome de Aquino…”. Purtroppo l’opera, venduta nel 1861 a un certo Molinari, è scomparsa. Si forma così una commissione nel 1837. C’è Rodolfo Vantini, disposto a servire gratuitamente visto che lavora a palazzo Tosio ed è legato alla chiesa abitando nella palazzina del padre Domenico in piazzetta San Benedetto. L’impresa affascina poi Luigi Basiletti, che il 14 febbraio 1837 viene invitato a esaminare le pale di Sant’Orsola e delle “Santine” da restaurare e due giorni dopo elogia il progetto della Fabbriceria di San Clemente, “… giacché tale operazione fatta colle buone regole d’arte può assicurare la loro conservazione per qualche secolo”. E aggiunge: “Opino che il sig. Gio Batta Speri sia in Brescia l’artista più atto a tale lavoro avendo in molte altre opere di simile genere dato prova di somma diligenza e capacità nell’arte”.
Il contratto è preciso. Direzione dei lavori al Basiletti, compenso al restauratore di 300 lire milanesi, a carico del possidente Antonio Pitozzi (1779-1863), collezionista di quadri e sculture che donerà, nove anni dopo, ai musei di Brescia in via di costituzione. Quattro mesi di tempo per i restauri dalla firma del contratto. Ecco le richieste della Fabbriceria: “Al quadro delle Santine (essendo convenientemente foderato) procurerà con forte pressione di appianare ogni ineguaglianza portandolo prima su un telaio provvisorio, ed in appresso sopra altro telaro fatto a chiave, che gli verrà somministrato. I ritocchi fatti al medesimo quadro già da venti e più anni, essendo cresciuti di colore saranno leggermente raschiati, e fatti di nuovo con la massima diligenza, non sovraponendo colore nuovo al colore originale del quadro, ma stando nel limite circoscrito come sopra. Si leverà la vernice vecchia applicandovene della nuova”. Il restauro fu elogiato.Unico il dissenso espresso poi dal critico Ugo Fleres. E per la “Sant’Orsola”, cosa chiedeva la Fabbriceria? “Il quadro sarà foderato con tela che gli verrà soministrata, e portato sopra nuovo telaro fatto a chiave pure soministrato come sopra.
Essendo il detto quadro in istato vergine e conservato per ciò che riguarda il dipinto, così userà il Sig. Speri tutta la cura nel ripulirlo affinché le tinte originali non venghino ad essere pregiudicate, e vi applicherà pure una buona vernice”. “Detti quadri furono lodevolmente ristaurati assecondando anche le istruzioni che nel corso del lavoro mi feci premura di comunicare” dichiara lo Speri a fine lavoro. Il primo gennaio 1842 iniziano altri lavori in San Clemente, e si ricorre ancora alla sua opera per la “ristaurazione fatta alli due quadri l’uno rapp. Abramo e Melchisedek, l’altro S. Paolo e S. Girolamo”. L’“Offerta di Melchisedech” era già stato restaurato nel 1774 da Antonio Paglia. Non sorge alcun problema e rilascia quietanza per lire austriache 40, 83. Terzo intervento nel 1843. C’è da restaurare la “Madonna col Bambino in gloria e i santi Clemente, Domenico, Caterina, Floriano e Maria Maddalena”. Il 25 gennaio Speri dichiara “d’aver ricevuto mil. lire Centocinquanta pari Austr. 125, a saldo del ristauro fatto per la Pala Maggiore”. E generosamente si offre “… gratuitamente a quella manutenzione che in avanti tutti li distinti quadri di detta Chiesa ne andassero occorrendo”.
Speri diede comunque il meglio della sua abilità al servizio del re di Prussia. Gli strappi nel Museo imperiale di Berlino lo dimostrano. Controprova sono le cronache dei giornali ufficiali come la “Gazzetta privilegiata di Milano” (10 aprile 1843). Il giornale segnala “la prodigiosa operazione” di riporto da parte dello Speri di affreschi di Giulio Romano e di altri di Bernardino Luini strappati dai muri di casa Silva, in Milano, finiti a Berlino “con gran soddisfazione” del re e del direttore dei musei Voager. Ma anche senza grancassa Speri si distingue per gli stacchi di un affresco sempre di Giulio Romano e di altri tolti da una sala di palazzo Nonio di Mantova. Sono veri e propri salvataggi. Annotano i Commentari del 1844: “Non è la prima volta che ci fa, lo Speri, conoscere la sua perizia nell’artifizio utilissimo di riportar sulla tela gli affreschi, salvandoli dai deperimenti a cui si trovano esposti nelle pareti o per inclemenza degli elementi o per incuria dei possessori o per altre naturali ed eventuali cagioni”. In Pinacoteca, come saggio del suo valore, resta la testa del condottiero Nicolò Orsini, conte di Pitigliano. La staccò dal palazzo di Ghedi che passò poi ai Martinengo ed infine ai nobili Mondella, munifici nel donare al Museo Cristiano il sarcofago di Nicolò Orsini e alla Tosio Martinengo gli affreschi attribuiti a Girolamo Romani. Varrà la pena di approfondire questa operazione ricordando anche il Battista Speri pittore e collezionista.
Moretto in San Clemente
Cinque le pale del Moretto in San Clemente. La prima, eseguita attorno al 1543, raffigura lo “Sposalizio mistico di santa Caterina d’Alessandria, con santa Caterina da Siena e i santi Paolo e Girolamo” (olio su tela, cm 308×194). Segue fra il 1540 e il 1550 la tela che il popolo chiamava delle “Santine”. Raffigura infatti le Sante Lucia, Cecilia, Barbara, Agata e Agnese (olio su tela, cm 259×176). Della stessa epoca è la pala raffigurante “Sant’Orsola e le vergini compagne di martirio” (olio su tela, cm 245×167). Databile attorno al 1548 è la pala dell’altare maggiore raffigurante la “Madonna col Bambino in gloria e i santi Clemente, Domenico, Caterina, Floriano e Maria Maddalena” (olio su tela centinata, cm 421×280). Ultima opera del Moretto in San Clemente, databile attorno al 1554, è “Melchisedech che offre pane e vino al patriarca Abramo” (olio su tela, cm 225×180). Alla sua morte, Moretto donò per la sagrestia un quadro incompiuto, il “San Tommaso d’Aquino”.
Da “La gazzetta privilegiata” di Milano. Milano, 10 aprile 1843 “…E’ veramente prodigiosa l’operazione dello Speri, e ancora non so togliermi da quella meraviglia che in me desta l’osservatore su di un’ampia tela riportato un dipinto a fresco ch’era testé in un’abitazione abbandonata ad un uso totalmente contrario alla buona conservazione, ed anzi attissimo a far per sempre perire un bel lavoro del Pippi Giulio, romano (Giulio Romano, ndr). Già era forte in me l’ammirazione che lo Speri meritavasi per gli affreschi del Luino, che strappati dai muri nella sala terrena del sig. Silva di Milano son or giunti a Berlino in ottima conservazione, e con gran soddisfacimento di quel generoso monarca, che mercé della sua penetrazione e delle giudiziose osservazioni fatte dal chiarissimo prof. Vaager ha voluto che se ne manifestasse il pieno aggradimento al bravo Speri. E l’aggredimento fu maggiormente comprovato coll’ordinazione ond’egli eseguisse altrettanto per l’affresco di Giulio Romano, di cui ora si parla. In chi fa riflessione a questo grandioso dipinto, e l’osserva per nulla alterato dalla condizione in cui trovavasi testé nel palazzo Nonio, anzi con intonazione più fusa, mercé della perizia che lo Speri manifesta ognor più nelle sue preparazioni, non può a meno di risvegliarsi un affetto di stima e di plauso per questo diligentissimo operatore. E quando allo Speri è dato di poter attentamente scrutinare in quale stato si trovi il fresco, sa allora anche compromettersi e guarentire l’esito del meraviglioso trasporto che dal muro alla tela se ne voglia fare”.
Lettera del conte Francesco Gambara alla “Gazzetta privilegiata”. Brescia, 15 febbraio 1843 Nel n. 235, data 25 agosto passato, lessi con piacere nell’Appendice del suo Giornale “Gazzetta Privilegiata di Milano” il suo coscienzioso parere, come testimonio di veduta dell’operazione eseguita in Milano sopra i dipinti a fresco dell’immortale Bernardo Luino, dal mio concittadino Giambattista Speri, il quale con tanta fatica, studio ed esperimenti, seppe condurre il novello ritrovato di trasportare i dipinti a fresco dal muro sopra la tela, e con si fatta perfezione, che siccome Ella, mio Signore, dice giustamente, niun altro fino ad ora toccò si fatta mèta. Quindi affidato nella benevolenza di cui Ella mi onora, vorrei pregarla di fare pur anco cenno d’altro grandioso quadro, strappato dallo stesso signor Speri dal muro di ampia sala del palazzo Nonio di Mantova ed acquistato a considerevole prezzo dallo stesso signor Vaager, direttore de’ Reali Musei di Prussia, per arricchire quella Reale Pinacoteca. Il quadro di cui le ragiono offre un gruppo capriccioso di tre figure seminude, tra le quali Diana che allunga un braccio in atto ordinare alle compagne di spogliare Calisto, onde scoprire il suo delitto. Un altro capriccioso aggruppamento di quattro figure tra le quali Calisto, che viene scoperta dalle compagne, compisce la diritta del quadro. Una grandiosa quercia divide queste due brillantissime e pastosissime masse, due cani da caccia le uniscono mirabilmente. Il fondo del terreno è campeggiato da erbe designanti un bacino di acqua; l’altezza del quadro è più di cinque metri, la larghezza di 3 metri e centimetri 50. Ciò che v’ha di mirabile si è che l’operatore abbia potuto conservare forza di colorito, trasparenza, effetto di chiaro scuro, e tutte insomma le più minute cose: di maniera che ne pochi quadri ad olio ponno reggere a fronte di questo grandioso bel dipinto; cosa che rende sicuro l’operatore del fatto suo, che dagli intelligenti una volta esaminato se è a buon fresco, egli ne guarentisce legalmente il valore come fece in quello che fu encomiato da lei. Ella, o mio Signore, faccia di questa mia lettera quel conto che nel molto di Lei senno giudicherà convenevole; quanto le scrivo egli è solo per rendere giustizia al merito di un faticoso mio concittadino, e per incoraggiare le persone facoltose a giovarsi dello stesso, e così preservare i dipinti di pregio che onorano l’Italia nostra da quel deperimento che il tempo cagiona a tutte le cose mondane. Nella speranza di essere da Lei graziato, gliene anticipo la mia gratitudine, e la vita mia brama di provarmele quale mi pregio di protestarmele colla più verace estimazione. Dev.mo affezz. servitore Francesco Gambara.
Battista Speri, il padre dell’eroe bresciano, faceva il restauratore e il pittore
Il padre dell’eroe delle Dieci giornate passò dalla sartoria al restauro dei dipinti, lavorando anche per il re di Prussia. Era partito come soldato del generale Lechi dal quale un giorno fu chiamato a palazzo…