A Trento, la sera del Giovedì santo, il 23 marzo 1475, la madre di Simonino, un bambino di circa due anni – sull’età le fonti differiscono di qualche mese – uscì di corsa dalla casa, alla ricerca del figlio che s’era allontanato inspiegabilmente. Ormai imbruniva. La donna, moglie di un conciatore, era particolarmente preoccupata. Corse dai vicini, chiese aiuto. In breve si formò un gruppo che prese a battere tutte le strade del capoluogo. Nulla. Passo il Venerdì. Giunse il Sabato, senza che di lui si fosse trovata la minima traccia. Rapito? Finito in un fiume o un torrente; ucciso? La mattina del giorno di Pasqua alcuni ebrei, vicini di casa del conciatore, si recarono a passo spedito dal vescovo della città e dissero di aver visto il quel corpo del bambino, straziato, nelle torbide acque della roggia, vicino alla loro abitazione, che si trovava nei pressi dell’attuale piazza della Mostra. Il vescovo incaricò il prefetto di svolgere una minuziosa indagine, mentre l’opinione pubblica iniziava a mettere in relazione coloro che avevano trovato il cadavere con gli assassini del bambino. Simonino era stato spogliato, seviziato con un numero infinito di coltellate. L’assassino l’aveva poi finito stringendogli un panno attorno al collo. Quindi, con il coltello, gli aveva asportato il pene e i testicoli. Poi l’aveva rivestito e gettato nella roggia. La criminologia consentirebbe, oggi, di formulare l’ipotesi di un delitto a sfondo sessuale, a causa dell’elevatissimo numero di colpi di chiodo e dell’asportazione degli organi genitali, che, per alcuni maniaci, costituiscono una sorta di trofeo. Gli inquirenti dell’epoca invece lavorarono per tre giorni, interrogando gli ebrei e valutando alcuni riscontri e, forse cedendo alla pressione dell’opinione pubblica, che riteneva la morte di Simonino frutto di un omicidio rituale finalizzato al prelievo di sangue da aggiungere agli azzimi, accusarono la piccola comunità ebraica dell’orrendo delitto. Furono incarcerate quindici persone, d’età compresa tra i 15 e i 90 anni. Gli imputati furono interrogati, per settimane e settimane, con i crudeli metodi dell’epoca, mentre il corpo del bambino, trasportato nella chiesa di San Pietro, a Trento, con un grande concorso di folla, fu oggetto di un pellegrinaggio incessante. E, secondo le testimonianze, il piccolo cadavere iniziò ad esaudire le preghiere dei fedeli.
La ricostruzione dei fatti compiuta durante il processo dischiudeva il seguente quadro infernale. Secondo l’accusa il gruppo di ebrei aveva agito per procurarsi del sangue puro per i riti pasquali. Simonino sarebbe state stato rapito da un certo Tobia e portato nella casa dell’amico più potente della comunità, Samuele. Qui si sarebbe riunito l’intero gruppo che avrebbe poi trasportato la vittima imbavagliata, nelle ore notturne, nell’edificio di culto. Sempre secondo l’accusa, il piccolo sarebbe stato spogliato e straziato in più punti con l’uso di chiodi o grossi aghi, con l’asportazione di brandelli di carne dalla mascella, mentre uno degli aguzzini agiva stringendogli lo straccio sulla bocca o sul collo per non farlo gridare, ma per tenerlo in vita affinché il sangue non smettesse di zampillare. Nel corso dell’omicidio, come appare nei primi dipinti e nelle stampe, gli furono tagliati – come si diceva – i genitali. L’operazione si sarebbe conclusa dopo circa un’ora di sevizie, con la morte del bambino. Ora dobbiamo porci una domanda. Perchè il cadavere non fu sepolto e occultato per sempre? Seppellire un bambino di due anni non doveva essere un’operazione complessa. Perchè fu rivestito? Per ricomporre il senso di colpa? Chi abbandona le proprie vittime in questo modo?
Il Legato di Papa Sisto IV, chiamato dal principe-vescovo Giovanni Hinderbach a sovrintendere al processo, aveva affermato che l’accusa nei confronti degli ebrei era infondata, ma la comunità locale era molto potente e l’opinione pubblica chiedeva l’esecuzione capitale dei presunti colpevoli. Il Legato informò il Pontefice che, per limitare manifestazioni al limite dell’idolatria, proibì il culto riservato a Simonino,proclamato immediatamente Beato dal popolo, ma non riuscì a interrompere il corso della giustizia. L’antisemitismo era particolarmente violento, in quegli anni, anche per motivi economici, legati alle attività bancarie di alcuni esponenti di queste comunità, contro le quali si era scagliato, tra gli altri, il predicatore francescano Bernardino da Feltre, che aveva fondato numerosi Monti di Pietà, istituzioni cattoliche che intendevano concedere prestiti su pegno ai cristiani per evitare che dovessero ricorrere ai banchi degli ebrei.
Le esecuzioni capitali avvennero dopo mesi di torture, quando i giudici ebbero ottenuto la confessione del delitto da parte di quattordici imputati. Contestualmente alla sentenza, fu emesso un provvedimento che bandiva perpetuamente gli ebrei da Trento. La quindicesima accusata, una donna di nome Bruna, resistette nel negare le accuse dei giudici, ma alla fine confessò e si dichiarò pentita, poco prima di spirare, devastata dalla tortura. Il gesto di pentimento fu apprezzato dal principe-vescovo e dagli accusatori che decisero di seppellire il cadavere di Bruna in terra benedetta. Le predicazioni a favore del culto del Beato Simonino e contro gli ebrei, furono intense nel Trentino e nel Bresciano. In diversi casi si può presumere che accanto ai francescani si presentasse, nelle diverse chiese del territorio, la madre stessa di Simonino, come avvenne a Gavardo, in provincia di Brescia, nel 1476 – l’anno successivo alla morte del bambino – paese nel quale la donna giunse per portare la propria testimonianza diretta, accanto al frate milanese Michele Carcano, anch’egli fondatore di Monti di Pietà. A Gavardo esisteva una forte comunità ebraica. La presenza della madre straziata dovette tradursi in un forte impatto emotivo, tradotto nell’affresco del locale Oratorio di San Rocco, nel quale è raffigurata, con crudezza, l’esecuzione del bambino. Il Papa che aveva impedito il culto, anche a causa delle forti pressioni delle comunità locali e dei cardinali che ne risultavano garanti, contemperò il suo atteggiamento, affermando che il processo si era comunque svolto con regolarità.
Nel 1588 il tributo devozionale a Simonino venne concesso ufficialmente dalla Santa Sede, nella forma di culto locale, ma con la possibilità di ottenimento dell”indulgenza plenaria chi si fosse recato in pellegrinaggio presso il cadavere del bambino. Ogni dieci anni la salma di Simonino – che era impetrato per la protezione dell’infanzia – veniva trasportata nelle vie di Trento, in solenne processione. La revisione degli esiti del processo e il riconoscimento dell’incongruità della posizione della Chiesa rispetto a questa vicenda portò, nel 1965 – in seguito al rinnovamento della Chiesa, sancito dal Concilio Vaticano II – alla rimozione delle reliquie del santo, conservate nella chiesa trentina di San Pietro, e alla cancellazione di Simonino dall’elenco dei martiri. La querelle sul presunto omicidio rituale riesplose nel 2007 quando lo storico italo-israeliano Ariel Toaf pubblicò Pasque di sangue, uno studio nel quale scriveva che, in alcuni circoli ashkenaziti minoritari e isolati, quei fatti potevano essere stati possibili, sia per il mancato rispetto del tabù imposto dalla religione ebraica relativamente al sangue che per contestazione anti-cristiana. Pur avendo argomentato con estrema prudenza, indicando il fenomeno come possibile devianza di alcuni membri o di singoli individui, la comunità accademica e gli ebrei reagirono come se fosse stato colpito l’intero popolo ebraico. Il libro venne ritirato dal commercio e lo studioso si trovò al centro di una terribile tempesta mediatica.
Venendo all’iconografia di Simonino, ci troviamo al cospetto di due segmenti diversi. Il primo – molto legato ai fatti di cronaca – che rappresenta il martirio, nel dettaglio; il secondo – più meditato – che raffigura il piccolo “santo”, con la pelle costellata di ferite rosso sangue, un coltello in una mano, la palma del martirio nell’altra o il vessillo di Cristo, pinza e chiodi deposti ai piedi, che ricordano il martirio del bambino come un “piccolo Gesù”. Questa versione emendata dalla presenza dei torturatori, proietta il bambino in una dimensione celeste.
E’ possibile ipotizzare che gli affreschi più truculenti dedicati all’atto del martirio siano stati realizzati nel periodo più a ridosso dei fatti, forse nelle comunità dove transitò la madre di Simonino, oppure ispirati alle prediche veementi dei francescani e alle stampe, che circolarono immediatamente a ridosso dei fatti. Tra gli autori che si misurarono con questo soggetto vi fu Vincenzo Foppa, che realizzò una pala – Il Martirio del Beato Simonino – tra il 1475 e il 1576, per la chiesa del Carmine, a Brescia. L’opera è scomparsa. L’ultima notizia della pala risale al febbraio del 1808 quando il quadro compare nell’elenco di opere che devono essere spedite alla Direzione del Demanio di Milano a seguito della soppressione degli enti religiosi avvenuta in epoca napoleonica. (Archivio di Stato di Brescia – Intendenza di Finanze, Corporazioni religiose, b.4 e C. BOSELLI, Gli Elenchi della spoliazione artistica nella città e nel territorio di Brescia nell’epoca napoleonica, in “ Commentari dell’Ateneo di Brescia per l’anno 1960”, Brescia, Geroldi, 1961, pp.275-330). Da allora non si hanno più notizie di quest’opera, che doveva essere particolarmente rilevante. A Bienno, in Valcamonica, nella chiesa di Santa Maria Annunciata ben quattro affreschi ( fine del XV secolo) rappresentano il “Beato” anche come formula di ex voto.
Testimonianze del primo Cinquecento si trovano invece – nella versione del martire accreditato – in San Pietro in Lamosa, a Provaglio di Iseo, sempre in provincia di Brescia. La figura del bambino di Trento è reiterata e collocata, nel santuario bresciano, in contesti sempre collegati alla presenza della Madonna e del piccolo Gesù.