Costantin Brancusi (1876-1957) ,oltre che grandissimo scultore, fu fotografo di straordinaria capacità immaginativa e tecnica, e in rapporto con fotografi del calibro di Man Ray o Charles Sheeler. Fotografia e scultura: binomio inscindibile del pensiero dell’artista, anche se l’attenzione del pubblico – che in massima parte non conosce il rapporto strettissimo tra Brancusi e la macchina fotografica, nèlla sua vasta, interessante produzione -si è esclusivamente diretto all’opera scultorea, ritardando, di fatto, la scoperta della seduzione che le sue immagini, ottenute dall’alchimia del processo fotografico, sanno emanare.
L’artista, che giunse a possedere fino a quattro macchine fotografiche contemporaneamente, e sviluppava personalmente le fotografie nella camera oscura dell’atelier, ci ha lasciato 1865 negativi e stampe originali (conservati nel Fondi del Musée national d’art moderne di Parigi) in cui si scopre uno straordinario spirito sperimentale: inversione e sovrapposizione di negativi, solarizzazioni, stampe in controparte, a contatto e a ingrandimento.
All’interno di questa visione la fotografia acquista, dunque, il valore di opera autonoma, non subordinata alla scultura ma in grado, anzi, di portare a compimento il lavoro sulla scultura stessa. La fotografia diventa scultura ultima: emanazione luminosa di un processo fisico che segna l’esito ultimo della ricerca sperimentale di Brancusi. La Fondazione Peggy Guggenheim dedicò al maestro un’importante mostra veneziana. .
L’esposizione si articola in otto stanze che si propongono come punto di vista, possibilità di osservazione, luogo in cui specifici aspetti della ricerca brancusiana vengono messi a fuoco: tra gli altri, la percezione spazio-temporale, la materializzazione della forma, la luce, il rapporto con l’arte cinematografica. Nella prima stanza, ad esempio, la scultura è osservata nel suo emergere come “rilievo” dal fondo dell’atelier, nella seconda il confronto è tra gesso e fotografia, ne la stanza di Prometeo l’attenzione si concentra sulla produzione in serie, la dissoluzione e l’ombra. Nelle ultime due sale si indaga il rapporto di Brancusi con il cinema attraverso alcune immagini non di sculture e la proiezione di film contemporanei, per chiarire il legame dello scultore con la sperimentazione e l’avanguardia cinematografica. La fotografia è ricordo e registrazione ma, soprattutto, è ricerca formale, opera d’arte. Grazie all’originale impianto di “Brancusi.
L’opera al bianco”, le fotografie potranno trasmette, nell’osservazione dell’oggetto reale, le sculture stesse, alcuni suoi pensieri sull’opera, come in una sorta di metalinguaggio silenzioso. Ma perché “al bianco”? Il “bianco” riguarda Brancusi, è parte della sua vita e del suo lavoro, per tanta parte in gesso e in pietra, dell’atelier pieno di polvere, dei suoi vestiti bianchi e della sua barba. Ma anche simbolo di quella luce finale che l’artista, per una vita, cerca di rendere visibile. “Opera al bianco” è, infine, sintagma che indica la trasmutazione in argento e come la stampa fotografica avviene nei sali d’argento, così queste immagini, che paiono uscite dalle mani di un mago, si presentano come pura alchimia. Il catalogo che accompagna la mostra, edito da Skira con la Collezione Peggy Guggenheim, nella versione in italiano e in inglese, contiene un saggio di Paola Mola, schede a cura di Marielle Tabart, una nota tecnica di Francesca Parrino, e si propone come indispensabile strumento per la conoscenza e l’approfondimento dell’opera fotografica di Brancusi.
Brancusi fotografo, le immagini scattate dal grande scultore
Il grande scultore ha lasciato 1865 negativi che consentono di evidenziare, anche in questo campo espressivo, il suo straordinario spirito sperimentale. Inversioni e sovrapposizioni di negativi, solarizzazioni, stampe in controparte, a contatto e a ingrandimento: un viaggio nella manipolazione alla ricerca delle verità essenziali della creazione.