Caccia nell’arte tra Pitocchetto e gli spiedi bresciani di Inganni

Nobili e ricchi borghesi chiesero ai pittori più celebrati di cantare le imprese venatorie. Ecco due modi diversi di interpretare il mondo della caccia, dalla verità delle cose del Settecento all’edonismo biedermeier del secolo successivo
Giacomo Ceruti, Scena di caccia
Giacomo Ceruti, Scena di caccia

“Quella della caccia è un’attività strettamente interconnessa con la cultura alta del Paese: entra nella pittura, occupandone segmenti ampi e non episodici, transita attraverso la letteratura – dice Alessandro Sala, ex assessore alla caccia della Provincia di Brescia – il quale, da tempo, promuove lo studio e la documentazione delle pratiche venatorie, anche sotto il profilo artistico -. Ciò dimostra che essa non è soltanto frutto della cultura materiale, ma che è stata in grado di innervarsi saldamente al nostro storico modo di sentire e di esprimersi, comune a tutte le epoche e tutte le classi sociali. Non c’è da stupirsi, pertanto, se più di un pittore abbia deciso di eleggere questa attività a soggetto della sua opera, creando un vero e proprio genere artistico”.
Negli anni della maturità Giacomo Ceruti (1697-1768) dedicò una parte della propria produzione a tali temi, effigiando cacciatori e dipingendo nature morte composte di selvaggina: soggetti che incontravano il gusto dei committenti patrizi, i quali erano soliti conservare nelle proprie case il ricordo delle battute di caccia, attraverso i ritratti dei signori e del fattore con i cavalli, le mute di cani, le prede e, sullo sfondo, l’attività venatoria nel suo svolgimento. Questi quadri, di grandi dimensioni, rappresentano un aspetto fondante della pittura della realtà lombarda: ispirati all’arte fiamminga, della quale condividono l’ispirazione non aulica, ma da “cascina”, si distinguono per un tipo di realismo asciutto e documentaristico, che non ha riscontro altrove. La Scena di caccia ritrae tre giovani rampolli impegnati in un appostamento: uno di essi, al centro, è accovacciato su un’altura, pronto a sparare. I suoi due compagni non sembrano curarsene: quello raffigurato in basso a sinistra si sta occupando dei cani, mentre l’altro, sul lato opposto, pare distratto, e rivolge lo sguardo allo spettatore quasi per coinvolgerlo meglio nella scena. Il Ritratto di gentiluomo alla caccia mostra un aristocratico dalla corporatura pingue, bardato in una sontuosa tenuta, che regge nella mano sinistra un fucile, ed è scortato dagli immancabili segugi. Sullo sfondo un paesaggio pianeggiante, animato da altri cacciatori e animali, e in lontananza la città turrita.

Angelo Inganni, Ragazza davanti al focolare
Angelo Inganni, Ragazza davanti al focolare

Protagonista de L’incontro al pozzo, più che la caccia, è l’amore: due giovani amanti, di umile estrazione sociale (come si evince dalle vesti che indossano), si scambiano teneri sguardi nei pressi di un pozzo. Un incontro fugace, ritagliato nel tempo dedicato alle occupazioni quotidiane. La mano destra dell’uomo sfiora delicatamente il braccio di lei, mentre la sinistra impugna la canna del fucile. La fanciulla invece regge un secchio colmo d’acqua e rivolge gli occhi verso l’osservatore, con il capo lievemente reclinato verso destra. Assistono alla scena due cani, che reclamano l’attenzione degli innamorati. Anche Angelo Inganni (1807-1880) si è interessato all’arte venatoria, prediligendone l’aspetto edonistico: ecco la sua Ragazza davanti al focolare.

Il pittore fa intuire una presenza maschile raffigurando un cappello sullo schienale della sedia: chiara allusione all’uomo di casa, che attende impazientemente di gustare le carni deliziose. La storia di Brescia è da sempre legata alla pratica della caccia, e nonostante il progresso industriale, il territorio e la cultura della provincia hanno mantenuto intatta questa tradizione vecchia di secoli. L’Historia della riviera di Salò, compilata da Bongiani Grattinola nel XVI secolo, descrive la zona come uno dei paradisi venatori d’Italia: “Ci si pigliano uccelli di passaggio, tordi, quaglie, pernici, strone e altre con reti da mano e da sacca, con copertoni, lacci e con giochi che si fanno con vischio…”. Si cacciava ovunque: sui monti la grossa selvaggina, nei valichi e nelle pianure i volatili.

Furono proprio i bresciani ad esportare in Trentino, nei primi decenni del Seicento, la tecnica dei roccoli. L’utilizzo di reti ed altre trappole si diffuse in modo capillare in tutto il territorio: non c’era villa sprovvista di impianti con reti, né cascina in cui mancasse un canile con mute per lepri, quaglie e pernici. La pratica della caccia raggiunse il suo apogeo con l’introduzione delle armi da fuoco, avvenuta un secolo più tardi: nelle industrie Beretta di Gardone Valtrompia, celebri in tutto il mondo, si producevano numerosissimi fucili, il cui uso rese quest’arte ancora più raffinata. Il ricorso indiscriminato a tutte le tecniche venatorie portò ad una drastica diminuzione della selvaggina: nel gennaio del 1797 il Governo provvisorio si vide costretto a proibire la presa dei nidi, l’impiego di vischio, reti, schioppi e cani, e a limitare la stagione di caccia dal primo agosto al primo aprile; risalgono al 1804 l’emanazione di nuove norme e l’obbligo della licenza di caccia. Tali provvedimenti – cui se ne aggiunsero ben presto altri – contribuirono ad adeguare questa tradizione culturale e sportiva ai tempi, e a renderla una programmazione precisa e partecipata.

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