di Stefania Mattioli
“Stile”aveva intervistato, sul tema del vedutismo e dell’uso della camera ottica, Fabio Benzi, che aveva curato la mostra “Gaspare Vanvitelli e le origini del Vedutismo”, al Chiostro del Bramante di Roma. Riproponiamo quell’intervento.
Di Gaspar van Wittel – italianizzato in Gaspare Vanvitelli – (1652-1736) si sa poco o niente. Sembra che neppure fra gli addetti ai lavori si sappia molto, e la bibliografia che lo riguarda – eccetto il saggio di Giuliano Briganti – è pressoché inesistente. Come è stato possibile questo oblio secolare?
E’ essenzialmente una “dimenticanza” della critica. Il saggio di Briganti – assumendo il ruolo di catalogo generale – ha indotto gli studiosi a dare per conosciuta la sua opera, anche se non era così. Probabilmente è mancato qualcosa in grado di stimolare l’interesse degli storici, sono mancati gli spunti per un’indagine approfondita. Che l’importanza di van Wittel sia stata a lungo sottovalutata, è comunque un dato di fatto. Questo non si è verificato per altri artisti, come Canaletto o Bellotto, molto più conosciuti anche grazie a studi di maggiore funzione storica. Se van Wittel fosse stato studiato con più attenzione, avrebbe portato a maggiori sollecitazioni…
Creatore della visione intesa come fedele rappresentazione della realtà, van Wittel è fra i capostipiti del vedutismo italiano. Come si collega la sua opera alla pratica del “Grand Tour”, che proprio allora trovava fortuna presso gli stranieri che calavano in Italia (tedeschi, olandesi ed inglesi)?
La sua opera è legata soprattutto all’inizio del fenomeno del “Grand Tour”, quando lo stesso non aveva ancora raggiunto l’apice. Un fattore questo che, rispetto a chi ne ha vissuto la fase più fruttuosa (quella fra il 1700 e il 1730), lo ha penalizzato dal punto di vista della fama.
Quale fu, nella concezione pittorica e prospettica dell’autore, il ruolo della camera ottica e di altri strumenti della visione?
La novità dalla mostra è proprio nella scoperta – attraverso l’analisi dei disegni – di un uso meticoloso, scrupoloso ed estremamente precoce della camera ottica (difficile produrre immagini di una tale complessità senza l’uso della prospettiva). Gaspar ne sperimenta le potenzialità sin dal 1680, molto prima rispetto agli artisti italiani. Il suo anticipare i tempi è inscindibile dalle sue origini: l’Olanda è il Paese dei filosofi come Spinoza, delle scienze e delle ricerche avanzate nel campo dell’ottica, è il Paese dove cattolici e protestanti convivono civilmente e dove esiste la libertà di stampa.
Che cosa caratterizza il vedutismo vanvitelliano?
La capacità di incrociare la veduta minima lenticolare olandese con il senso di misura della pittura italiana: questa commistione ha dato vita ad una visione unica che precede con largo anticipo le idee illuministe.
Carlo Giulio Argan individua l’origine del Vedutismo – una pittura di ricerca dell’oggettivo – proprio nella cultura illuminista, “preoccupata soltanto di mettere in chiaro le strutture ed il funzionamento della mente”. In che misura le vedute dell’epoca rappresentano oggettivamente la realtà?
L’affermazione di Argan è ineccepibile, e van Wittel, come ho già detto, è un arguto precursore di tale filosofia. La camera ottica induce a leggere la realtà in un certo modo; il risultato non è mai una pura composizione della mente, e quindi elettiva, ma è una veduta selettiva: partendo da un dato oggettivo, reale, la camera ottica offre l’opportunità di scegliere fra le vedute possibili. L’assenza di un uso scientifico della prospettiva equivale all’assenza di una precisa gerarchia fra gli elementi compositivi; la veduta quindi – libera da qualsiasi rigidità prospettica – diviene astrazione.
Si può parlare di reciproca influenza fra van Wittel e altri grandi vedutisti dell’epoca (quali Giovanni Paolo Panini, Canaletto, Luca Carlevarijs)?
L’influenza in alcuni casi fu diretta ed in altri indiretta. La pittura di questo giovane artista olandese che, arrivato in Italia nel 1674, si serviva con maestria della camera ottica, dovette far notizia. Non so se Canaletto vide le sue opere, probabilmente sì. Fra i due non c’è una vera e propria dipendenza stilistica, ma una spiccata affinità estetica ed una esplicita analogia di metodo certamente sì.
Per la prima volta in Italia un’esposizione monografica dedicata a questo pittore. Fra gli inediti, quali le opere di maggior significato?
Preparare la mostra di Roma non è stato semplice, soprattutto per la difficoltà incontrata nel reperire le opere che, nella maggior parte dei casi, appartengono a privati. Fra queste, alcune – sino ad oggi mai viste per volontà degli stessi proprietari – provengono dalla collezione Colonna: sette quadri fra i più belli della rassegna. Altre tele, delle quali si erano perse le tracce dopo un passaggio d’asta a Londra, arrivano invece dalla collezione del Viceré di Napoli. Tutte acquisizioni importanti sotto il profilo storico-artistico. Da non sottovalutare poi la sezione dedicata ai disegni. Per van Wittel il disegno era una parte fondamentale della pittura, gli consentiva di leggere ed indagare la realtà con minuzia topografica.