La vita – Corot, dai viaggi italiani ai trionfi della maturità.
nasce a Parigi il 17 luglio 1796. Nel 1822 i genitori gli concedono una rendita che gli consente di intraprendere la formazione artistica. I suoi maestri sono affermati esponenti del paesaggismo neoclassico: Achille-Etna Michallon e Jean-Victor Bertin. Sono loro a indirizzare alla pittura en plein air il giovane, che è tra i primi a lavorare nella regione di Barbizon. Nel 1825 Corot si reca in Italia, il “paese incantato”, dove rimane fino al 1828 e dove fa ritorno nel ’34 e nel ’43. I suoi viaggi di studio lo portano pure in Svizzera, in Belgio, in Olanda, a Londra. Nel 1827 espone al Salon, a cui presenzierà in seguito con regolarità e del quale sarà nominato, a partire dal 1848, membro della giuria. Ottiene nel frattempo i primi riconoscimenti ufficiali: al Salon del 1840 lo Stato acquista “Il pastorello”, e la critica gli è nettamente favorevole.
Ma è l’Esposizione Universale del 1855 a consacrare la notorietà del pittore, che ottiene un ampio consenso e l’acquisto da parte di Napoleone III de “Il carretto, ricordo di Marcoussis”. La partecipazione con numerosi capolavori al Salon del 1859 segna l’apice della sua carriera. Oltre a vantare un folto gruppo di collezionisti e mercanti, Corot ha una schiera di allievi, tra cui Camille Pissarro, e la nuova generazione lo considera uno dei massimi paesaggisti della sua epoca. In occasione dell’Esposizione Universale del 1867, è nominato ufficiale della Legion d’onore. Continua a viaggiare, per lo più in compagnia degli amici di una vita, come Charles-François Daubigny, dipingendo dal vero ancora a pochi mesi dalla morte, avvenuta a Parigi il 22 febbraio 1875. Nella sterminata opera di Corot, oltre agli oli, sono da ricordare la vasta produzione grafica, che comprende disegni e incisioni, la sperimentazione della tecnica del “cliché verre” e la ragguardevole attività di decorazione murale.
Col suo solito acume critico Charles Baudelaire metteva Corot “a capo della moderna scuola di paesaggio”, dove quell’aggettivo “moderno”, sta a indicare la netta coscienza che si stava a un punto cruciale per la pittura di paesaggio e, di lì a poco, di tutta la pittura francese. Barbizon, gli Impressionisti, poi il Novecento; il punto cruciale e la novità accade proprio durante gli anni della vita di Corot e, per la sua modernità, attraverso di lui. Che, poi, la modernità che scorgeva Baudelaire nella pittura compassata del suo contemporaneo era proprio quell’anticipo di libertà di osservazione, di poetica del reale percepito nel suo muoversi vero, del suo filtraggio dei testi classici attraverso la percezione delle cose nella loro plausibilità fattuale.
In breve: nel ribaltamento dei termini della questione della priorità dell’imitazione dei classici sull’imitazione della natura che – con alti e bassi – aveva dominato l’Occidente pittorico, rientrando di prepotenza con l’instaurarsi della poetica neoclassica. Ed è già tutto fatto sin dal primo soggiorno italiano dell’artista (1825-1828), quando l’incontro con la pittura “dogmatica” dei padri, degli italiani, ma anche degli amati Poussin e Lorrain, si modernizza al fuoco del sole, della luce e della concretezza del paesaggio e della veduta italiana. Classica, forse, l’impaginazione delle scene, talvolta con l’inserzione di motivi, scenette, allegorie che occhieggiano al topos neoclassico del paesaggio d’idillio, ma con già quei tocchi di soda osservazione del vero che Corot ruba alle vedute reali e che poi ricrea in atélier dove la memoria e il ricordo servono da selettori naturali per la ricreazione della veduta nella sua essenza. Perché Corot, come gli altri prima di lui, schizza en plein air e poi lascia che sia il sedimentarsi delle emozioni a far scoprire la poesia delle cose.
Non, cioè, l’impressione, ma l’emozione che, per esprimersi, non può contentarsi del momento fugace. E in questo segue la prassi degli altri pittori di paesaggio e di veduta – se si vuole molti degli olandesi del XVII secolo e poi Van Ruysdael e l’italianissimo Canaletto – rimontando in laboratorio gli studi dal vero che sono, comunque, l’essenza del suo lavoro. Ma l’intuita baudelairiana “modernità” di cui si è detto all’inizio, passa proprio attraverso questo istante, e da quello che in questo istante l’artista sceglie di rappresentare, e come rappresentarlo. Che, se alle sue spalle Corot ha tutto l’insegnamento dell’accademismo e della levigata poetica neoclassica, allo stesso modo percepisce tutti i giorni il fremere della pittura romantica, dal tiepido Gros ai più convinti Géricault e Délacroix. Un’apertura a modi espressivi e a violenze tecniche che – se pure egli non userà mai – gli fanno ritenere legittimo quell’uso del colore più vibrato, largo e poi schiarito e liquido che preparerà la strada alla tavolozza e alle granulosità impressioniste.
Non c’è dubbio, infatti, che il realismo della pittura di Corot debba il massimo della sua espressività al modo col quale l’artista ha piegato la forza luministica delle sue vedute e dei suoi paesaggi alla necessità di trasmettere il più possibile la concretezza dell’elemento rappresentato, reso con una forza sintetica che lo sottrae alla tentazione di restituirlo addolcito o migliorato nella sua vernice estetica. Per lo più il portato classico appare in controluce nell’impaginazione del dipinto, nelle coordinate cromatiche, soprattutto dei primi paesaggi; ma – e soprattutto più ci si addentra nel secolo – ciò che prende poi il sopravvento è l’intensità dell’interpretazione che l’artista si sforza di dare del veduto, tanto che proprio lui ammise di interpretare tanto col cuore quanto con l’occhio, come a dire che il suo lavoro non poteva contentarsi solo di quello che l’occhio vedeva e, nemmeno, solamente di quanto il cuore sentiva.
Tanto più che nella fase tarda della sua produzione Corot comincia a riprendere gli appunti di molti anni prima e a rifare a memoria i paesaggi frequentati tempo addietro, con un distacco, quindi, ancora maggiore di quello praticato fino ad allora. Sono i temi del ricordo, forse il termine più alto della produzione dell’artista, perché, contrariamente a quanto si penserebbe, l’intrusione della memoria lontana non diminuisce la verità della rappresentazione e non riduce l’essenza a fantasia. Piuttosto tutto si avvolge di un’impalpabile sentimento che non deforma le cose ma la percezione, avvolta in quelle atmosfere rarefatte e vibranti che caratterizzano la produzione degli ultimi anni e che consegnano la modernità di Corot nelle mani delle generazioni più giovani.
ANALISI DELLA TECNICA PITTORICA
Analizziamo un dipinto di Camille Corot, rappresentativo di una produzione stilistica piuttosto vasta del pittore. Per questo l’opera risulta paradigmatica per comprendere la tecnica e le modalità di lavorazione dei dipinti da parte di Corot, cogliendone pure le differenze con gli Impressionisti, dei quali è considerato un precursore, come gli altri pittori che dipingevano dal vero, a Barbizon, nella foresta di Fointanebleau.
Jean-Baptiste-Camille Corot (1796-1875)
Fontainbleau-Bucherons près de la Mare de Franchart
firmato ‘COROT’ (in basso a sinistra),
olio su tela
16 x 23 in. (40,6 x 58,4 centimetri.)
Dipinto attorno al 1845-1850, rielaborato dall’artista nel 1872.
Il rettangolo dal perimetro rosso, che appare nel lato superiore della fotografia, qui sopra, indica il punto che poi vediamo, accanto, ingrandito. Le tele utilizzate sono di grana medio fine. La preparazione iniziale è sempre minima e magra. I primi strati di colore vengono stesi con particolare diluizione e a strati sottili. Ciò appare evidente dalle linee della craquelure. Il nostro occhio deve osservare la minima profondità delle crepe, che evidenziano uno strato di colore quantitativamente limitato e magro, cioè non caricato da olio aggiuntivo, ma allungato con diluente equivalente all’essenza di trementina o all’acquaragia. L’aggiunta di diluente consente al colore, se tirato sulla tela, evitando accumuli, di asciugare con rapidità, permettendo all’artista di ridurre i tempi d’attesa e di operare poi attraverso sovrapposizione di colori non diluiti, cioè più oleosi , corposi ed elastici. la differenza tra pittura magra – in cui è prevalente il diluente – rispetto alla pittura grassa è ben evidente in questa area del quadro dove osserviamo sia strati di colore molto sottili e secchi – che generano le crepe della craquelure – che punti più spessi, elastici e, all’apparenza gommosi, soprattutto a livello delle macchie cromatiche delle fronde, che non presentano crepe, invece ben evidenti nello strato contiguo. L’essicazione della pellicola cromatica e i traumi del tensionamento irregolare provocano il cretto o craquelure che, quando la pittura è molto diluita con solvente, crea uno strato fragile e sottile come il guscio di un uovo sodo.
COME OTTENEVA GLI SQUARCI DI CIELO TRA GLI ALBERI
Osserviamo sempre la craquelure, che appare molto evidente, e accanto, la macchia grigio-azzurra, che rappresenta i lembi di cielo che appaiono tra le fronde. Il pittore crea prima il blocco scuro dell’albero, poi sfonda questa oscurità con colore quasi secco. Poichè i tratti di cielo che appaiono nella chioma delle piante, sono resi irregolari dal reticolo di rami, foglie e rametti, Corot intinge un pennello piatto su residuo di grigio-azzurro che sta asciugando sulla tavolozza. Nel raccogliere questo colore pone il pennello perpendicolare alla tavolozza, poi schiaccia le setole sulla tela, creando i tratti irregolari del cielo che appaiono tra le fronde.
COME DIPINGEVA LE TIPICHE FIGURE-MACCHIETTE
Le piccole figure, colte alla distanza, vengono definite macchiette. La delineazione del personaggi è molto sommaria – realizzata, appunto, attraverso macchie cromatiche – e viene sfocata dall’artista – questa è un’opera di Corot – che non conchiude le silhouette, ma lascia che il colore esca dal bordo degli abiti. Questa tecnica consente di ottenere la sfocatura delle figure distanti, percepite così dal nostro anche a causa della presenza di umidità – già identificata da Leonardo da Vinci e oggetto di sue numerose annotazioni sulla modalità di rendere gli oggetti alla distanza -. Lo stesso Leonardo, nel suo trattato dedicato alla pittura, aveva affermato poi che i volti di persone lontane appaiono scuri. Corot interviene con un sommario colpo di luce, con colore grigio-bianco-azzurro, a livello delle camicie chiare di due contadini, per rilevarne lievemente le figure dal fondale. Poi sfuma il fondale con una pennellata di colore quasi asciutto, d’ocra chiara mista a verde.
COME OTTENEVA IL PREZIOSO COLORE PERLACEO
PERCHE’ INSERIVA FIORI E FILI D’ERBA NEL DIPINTO
La tavolozza utilizzata in molte opere dipinte a Barbizon è contenuta e poco squillante. Il fine è quello di ottenere, in momenti di assenza di sole, la magia di un panorama perlaceo. Per ricavare questo effetto madreperla, egli procedva suddividendo nel paesaggio i colori che costituiscono il gioiello acquatico. Bianco-grigiochiaro-azzurro (che è il punto del lume più intenso di una perla) – bianco-terra di Siena opalescente, che è il riflesso della prima parte lievemente in ombra della perla, nero e blu e marrone che costituiscono la colorazione del gioiello stesso nella parte in ombra. Frantumando questi valori cromatici nel paesaggio otteneva uno straordinario, prezioso effetto perlaceo, che può essere colto, in alcune ore del giorno, all’alba o al tramonto con cielo coperto.
Interessante risulta rilevare il fatto che molte opere di Corot, al di là della mano e dell’accordo cromatico, risultano immediatamente riconoscibili per la presenza di erbe in rilievo, fiori campestri e altri getti vegetali, cha appaiono morbidi come soffioni. Questi elementi floreali hanno funzioni di rilievo. Creare linee verticali che muovono la piattezza del terreno, sottolineare la profondità del paesaggio e, al tempo stesso, consentono al pittore di inserire colori puri, come il blu, il giallo o il rosso, che hanno la funzione di scaldare la temperatura cromatica del dipinto.
COME OTTENEVA RAPIDAMENTE IL COLORE DEGLI ALBERI
Il colore dell’erba e quello degli alberi sono molto diversi e compositi. Noi siamo orientati a pensare che un prato o la chioma di una quercia siano verdi; ma, in realtà, sono composti da più accordi cromatici. Per dipingere le frasche di una pianta, generalmente, Corot lavorava stendendo prima un nero-blu,, che vediamo bene nell’ingrandimento, qui sopra, al quale sovrapponeva un verde marcio. Finiva il tutto con una nuova sovrapposizione di bruno-rossiccio, come risulta molto chiaro osservando l’immagine. Infine, con colpi di grigio azzurro, non linearì nè geometrizzanti, creava il cielo tra le fronde. Viste da vicino le macchie del cielo dipinto sono in rilievo, rispetto alla chioma degli alberi. Ciò significa che sono stata stese alla fine, in ultima sovrapposizione ai colori sottostanti, ponendo il pennello piatto perpendicolare alla tela (vediamo i segni di colore, corrispondenti alle punte delle setole), picchiettandolo o trascinandolo, per ottenere stesure quanto più possibile irregolari.
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Camille Corot sosteneva di interpretare il visibile “con l’occhio e col cuore”. Il filtro del tempo che sedimenta le emozioni come strumento di scoperta della poesia delle cose colte nell’essenza più vera e profonda