Ai lettori di Stile Arte è offerto questo breve ma intenso saggio di Luca Francesco Ticini. Nella biografia dello studioso la presidenza della Società Italiana di Neuroestetica “Semir Zeki” (www.neuroestetica.org), la vicepresidenza del Comitato per la Promozione delle Neuroscienze e il ruolo di ricercatore presso il Max Planck Institute for Human Cognitive and Brain Sciences di Lipsia.
di Luca Francesco Ticini
[C]aravaggio dipinse le sue tele con estrema disinvoltura e toccante realismo, ritraendo con eguale maestria azioni misurate e gesti improvvisi, emozioni profonde e reazioni fulminee. Ciò che tuttavia più caratterizza i suoi capolavori, e quelli di molti altri artisti, è la straordinaria abilità – che sopravvive ai secoli – di comunicare in modo semplice e diretto con l’osservatore. Coinvolgendo la mente, il cuore e (come vedremo più avanti) i muscoli, il pittore crea una condizione di dialogo “empatico” fra l’opera e chi la guarda, affinché quest’ultimo trascenda dalla sua condizione per partecipare attivamente all’evento narrato nel quadro.
Nelle scienze umane, il termine “empatia” indica la capacità cognitiva di percepire ciò che un altro individuo sta provando. Tale atteggiamento, già affrontato nel XIX secolo da Darwin studiando la comunicazione mimica delle emozioni, permette di comprendere l’altrui stato intellettuale ed emotivo, ed è essenziale in una società complessa come quella umana. Certamente, l’empatia dipende dal nostro cervello e non è circoscritta solo alla comunicazione diretta fra gli individui della nostra specie, ma sembra avere un ruolo dominante anche nel nostro rapporto con le creazioni artistiche.
In quanto oggetto con forma e colori, un dipinto non richiederebbe di per sé alcuna reazione empatica, oltre al piacere di ammirarlo: di base, la percezione di un colore o piuttosto di un volto ritratto sulla tela, è mediata da specifiche aree del cervello che si attivano seguendo la stimolazione.
Ovviamente, questo alternarsi di attivazioni non rivela granché sul motivo per cui l’arte figurativa abbia avuto un ruolo così importante nella storia evolutiva del genere umano. Cerchiamo dunque di trovare, seppur con cautela, un motivo più plausibile per il quale un quadro possa stimolare il nostro cervello tanto da indurre l’osservatore a farsi, in un certo senso, attore nell’opera.
Innanzitutto, è necessario ricordare una fondamentale differenza fra il mondo reale e le rappresentazioni pittoriche. L’ambiente in cui viviamo è in continuo movimento, a cominciare dagli esseri umani, i cui gesti, espressioni ed azioni si susseguono ad un ritmo vorticoso attorno a noi. Gli organi di senso, stimolati fin dalla nascita da quest’ambiente in flusso ininterrotto, sanno trovare un significato per ogni movimento osservato, facendo perno sia sull’esperienza delle leggi della fisica sia sull’esperienza degli atti e delle intenzioni di coloro che ci circondano. In questo modo, possiamo prevedere dove cadrà una palla lanciata lontano, o intuire lo scopo delle azioni altrui.
Al contrario, le opere d’arte spesso hanno ben poco di naturale e non ritraggono situazioni della quotidianità. E anche quando lo fanno, rappresentano soggetti immobili, confinati e fissati nel mezzo necessariamente statico e bidimensionale della carta e della tela o trattenuti ed intrappolati nella greve rigidità della pietra. Dal punto di vista biologico, una tale staticità è al di fuori dei parametri consueti con cui siamo soliti interagire con il mondo esterno. Perché dunque, seppur assuefatti ad un ambiente in costante movimento, siamo affascinati ed attratti dalle immobili arti figurative?
Una recente questione di dibattito fra artisti e neuroscienziati, che forse può aiutare a trovare una risposta a tale domanda, è legata ai nuovi studi sui neuroni specchio scoperti da Giacomo Rizzolatti nel cervello dei primati. Il sistema dei neuroni specchio è costituito da una serie di circuiti nervosi che riproducono nel nostro cervello ogni azione osservata, nel medesimo momento in cui essa è compiuta da un agente esterno, e persino se il soggetto è un ritratto immobile. Non solo: l’elemento che più ha attirato l’interesse e la curiosità del mondo scientifico, è che le azioni osservate attivano gli stessi circuiti nervosi che si accenderebbero qualora fossimo noi stessi a compierle. In altre parole, il nostro corpo mima empaticamente le azioni ed emozioni espresse sui volti altrui come se fosse uno specchio. Di ciò quasi mai siamo consapevoli.
Questa scoperta ha un’importanza rilevante perché suggerisce che l’empatia non nasce da uno sforzo cognitivo, bensì fa parte del corredo genetico della nostra specie. Le implicazioni, secondo alcuni ricercatori come David Freedberg e Vittorio Gallese, sarebbero considerevoli in ambito artistico, avvicinando in un approfondimento reciproco lo studio dell’arte e le neuroscienze (nella nuova disciplina chiamata neuroestetica).
Lo studio dei neuroni a specchio ci informa che, quando ammiriamo il Ragazzo morso da un ramarro di Caravaggio, noi entriamo in risonanza con esso imitandone, seppur inconsciamente, la tensione della muscolatura del corpo e del volto: siamo pertanto compartecipi della sofferenza e dello spavento del giovane, che torce il busto ed il viso per la dolorosa sorpresa. Di fatto, la semplice osservazione di una postura attiva il nostro sistema motorio, che entra in empatia con la tela. Inoltre, un’immagine di questo genere attiva nell’osservatore la parte del sistema nervoso che corrisponde ai centri della percezione del dolore, permettendo una sensazione fisica corrispondente, anche in assenza di un vero stimolo dolorifico…