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di Maurizio Bernardelli Curuz
Il rapporto di Caravaggio con il teatro religioso fu strettissimo. Parte delle sue innovazioni compositive, il taglio vivido dei suoi dipinti, il rafforzamento espressivo richiesto ai suoi soggetti sembrano rinviare, più che ad una semplice osservazione della quotidianità, insita nel concetto di realismo, ad una quinta del teatro legato alle sacre rappresentazioni. Abbiamo intervistato, a questo proposito, Claudio Bernardi, docente di Storia del teatro e dello spettacolo e di Antropologia del teatro all’Università Cattolica di Milano e di Brescia.
C’è una forte evidenza, nei dipinti di Caravaggio, degli elementi teatrali, derivanti indiscutibilmente dalle sacre rappresentazioni. E, come ho dimostrato con la mia collega Adriana Conconi Fedrigolli, nel Sacro Monte di Varallo, di cui era responsabile Carlo Bascapè, il direttore spirituale di Costanza Colonna, la protettrice di Caravaggio. Le luci, le pose plastiche, le inquadrature fanno pensare, specie nei quadri con più figure, ad un’influenza notevole svolta dal teatro in senso esteso sulle scelte di Michelangelo Merisi. Può notare, rispetto ai suoi studi, svolti nell’ambito della cultura teatrale popolare dell’epoca, questa coincidenza?
La cultura religiosa, non solo popolare, del Cinquecento è impregnata di teatralità, presente in gradi diversi nei luoghi, nei tempi, nelle arti, nelle devozioni e nei culti cristiani. Si va dalle cerimonie drammatiche nelle cattedrali in cui, a Pasqua, si rievocava la visita delle Marie al Sepolcro (e dove l’elemento teatrale è molto trattenuto) fino alle grandiose rappresentazioni all’aperto delle Passioni francesi con centinaia di attori e comparse, oppure alle processioni drammatiche del Corpus Domini, dove si rappresentava per quadri viventi la storia della salvezza, dalla Creazione al Giudizio Universale. In tanto profluvio di scene sacre, quale artista non venne influenzato dal teatro religioso?
E’ importante tuttavia sottolineare come il teatro religioso avesse molte declinazioni, e soprattutto come il rapporto tra arti plastiche e figurative fosse strutturale, congenito. Al punto che è più facile immaginare la derivazione del teatro religioso dal cosiddetto “teatro delle statue”, in cui erano i simulacri di Cristo, della Madonna, dei santi ad essere i “protagonisti” della performance festiva o devozionale. La progressiva occupazione di questi ruoli “alti” da parte di attori in carne ed ossa (si pensi al Padre Eterno) divenne alla fine un problema grave, per l’alto rischio di spettacolarizzazione e di volgarizzazione del culto e della devozione.
A Milano, in quegli anni, si pongono le basi per la riforma dell’arte sacra. Carlo Borromeo interviene pesantemente attraverso il divieto di rappresentare la Passione di Cristo e dei santi. Ci può raccontare che cosa accadde con esattezza in quel periodo?
Contro la religiosità esteriore, che aveva prodotto una selva di devozioni, culti, rappresentazioni, profanità, si erano scagliati i riformatori cattolici e protestanti. Soprattutto questi ultimi consideravano ogni forma di culto esteriore un tradimento dello spirito evangelico, una smaccata manifestazione di paganesimo e, nel migliore dei casi, un gran teatro di futilità magico-superstiziose. Particolarmente preso di mira fu il teatro religioso in senso esteso, così come idolatriche erano tutte le immagini. La furia iconoclastica degli evangelici si abbatté su statue, dipinti, devozioni, feste, usanze popolari.
La Chiesa cattolica, con il Concilio di Trento, non poteva rinnegare riti e rituali, ma promosse una riforma severa del culto, operando una netta distinzione tra sfera del sacro e sfera del profano. Il teatro religioso era senz’altro un miscuglio di elementi religiosi e mondani. Ad esempio, gli inserti comici erano notevoli. San Carlo fu uno dei massimi interpreti della normativa tridentina, e uno dei suoi primi atti fu proprio quello di proibire le rappresentazioni, allora molto in voga, della Passione di Cristo e della vita dei santi.
Qual era la diffusione del teatro con temi religiosi ai tempi del giovane Caravaggio?
La tradizione storiografica comune considera il Concilio di Trento come la fine del teatro religioso. In realtà, la seconda metà del Cinquecento vede sì la fine del teatro religioso, ma di quello medievale. Al suo posto se ne sviluppa un altro che ha almeno quattro filoni principali. Uno è il teatro sacro all’interno delle chiese, il cui massimo fulgore è rappresentato dal teatro delle Quarantore. Il secondo è il teatro devozionale dei laici, il cui modello è la processione drammatica del Venerdì santo. Il terzo è il teatro di formazione, la cui forma più alta è la tragedia spirituale dei collegi gesuitici. Il quarto è lo sviluppo dell’oratorio o dramma in musica di contenuto spirituale.
E non sarebbe finita: restavano dappertutto molte tradizioni drammatiche medievali, e poi le scene fisse come i Calvari, i Compianti, le Pietà… Non saprei proprio dire quali di questi filoni potevano non essere noti a Caravaggio. L’unico teatro religioso sicuramente ignoto all’artista, perché nella sua giovinezza ancora non era stato inventato, è l’oratorio musicale.
Tra i secoli XIV e XVI furono particolarmente diffuse anche scene plastiche del Sepolcro…
Ed erano particolarmente diffuse al Nord. La forma classica di quello che allora si chiamava Sepolcro e che invece oggi è più noto come Compianto comprendeva una vera e propria scenografia di statue, in genere indipendenti e disposte attorno al simulacro di Cristo morto, rappresentanti la Vergine, la Maddalena, Giovanni, Giuseppe d’Arimatea, Nicodemo, le Marie.
La verosimiglianza e drammaticità di questi gruppi plastici è impressionante. Basta citare quello celebre di Niccolò dell’Arca a Bologna.
Perché, a suo giudizio, questa necessità di rendere viva e drammatica la presenza di Cristo, sul piano del presente?
Il principale modello di teatro religioso dei laici nel Medioevo è il “teatro della Pietà”, così definito perché al suo centro sta l’immagine che poi diventa rappresentazione della Pietà. Sarebbe più moderno dire l’immagine dell’Amore, ovvero l’immagine di Cristo morto per amore degli uomini. Nella sua essenza, quindi, il teatro della Pietà è la rappresentazione del corpo passionato e doloroso di Cristo, che deve suscitare in chi lo guarda uno sconvolgimento psicofisico, una conversione del cuore, una passione che induca il fedele a cambiare vita e a fare agli altri quello che Dio ha fatto a lui. Il teatro della Pietà è un Amore che si fa amare per amare.
Al contrario della tragedia greca, in cui il pianto si sperdeva nel vento dei personaggi mitici, il teatro religioso non libera dalle passioni, ma scatena passioni, è anticatartico. E’ un’estetica per l’etica, per raggiungere la concordia nella città, la fine delle violenze, per aiutare gli infelici.
Qual era la differenza tra san Carlo e il cugino Federico nell’ambito delle linee della sacra rappresentazione?
Se per sacra rappresentazione non intendiamo quella medievale, condannata sia dal punto di vista religioso per la sua “volgarità” che dal punto di vista estetico per la sua difformità dal nuovo canone teatrale della tragedia classica recuperata dagli umanisti, ma intendiamo quella controriformistica, san Carlo è da collocare tra i massimi promotori del teatro sacro “esteriore”, che va dalle processioni penitenziali ai trionfi della storia della Chiesa ambrosiana, dalle Quarantore ai Sacri Monti.
Il suo desiderio era la città rituale, trasformare tutti i luoghi pubblici e privati, tutti i tempi e tutti i generi di attività in processi di edificazione religiosa. Se Carlo è un attivo, Federico, al contrario, è un contemplativo. A lui si adatta meglio il teatro di parola, la tragedia spirituale, che infatti a Milano, sotto il suo episcopato, ebbe un forte impulso.
La prima processione con i misteri del Venerdì santo potrebbe essere stata vista dal Caravaggio. La processione del Venerdì santo fu ideata da Carlo Bascapè, barnabita, come dicevamo,direttore spirituale della sua protettrice. Una novità introdotta in questo rito è, come lei dice, “la conquista devota della notte, percepita nell’epoca medievale come il tempo del Male”. Il tenebrismo di Michelangelo Merisi nasce forse da quel punto?
La conquista della notte fu una delle grandi novità devozionali della Riforma cattolica. A Milano, furono i barnabiti nel 1587 a introdurre una grandiosa processione notturna del Venerdì santo, e ben presto l’uso si diffuse in tutta l’Europa cattolica. Allora non c’era la luce elettrica, e tutto era illuminato da candele, torce, lumi, con effetti di contrasto e di “tenebrismo” facilmente immaginabili… Ma l’altra e forse più importante conquista della notte fu la devozione delle Quarantore, ovvero l’adorazione continua davanti all’eucarestia, esposta per il tempo in cui si credeva che Cristo fosse rimasto nel Sepolcro.
Singolarmente, la prima traccia di Caravaggio a Roma è legata al suo intervento alle Quarantore…
Infatti, la prima testimonianza che abbiamo del pittore nella città dei Papi è la sua presenza, insieme a Prospero Orsi, come assistente alle Quarantore in onore di san Luca, nell’ottobre 1594…
Lo schema compositivo di un teatro delle Quarantore è l’ostensorio posto sull’altar maggiore in un trionfo di luce, mentre l’ingresso e la navata sono, per contrasto, immersi nelle tenebre, che si diradano man mano che ci si avvicina al centro della chiesa. E’ superfluo ricordare che questo schema divenne il modello della chiesa barocca, in cui la parte più oscura è quella in cui si entra, mentre la parte più luminosa è quella dell’altar maggiore, dove è collocato il tabernacolo e sopra il quale si spalanca con la cupola la visione del paradiso.
La luce, laterale, insinuante, fioca o tagliente, è fondamentale nell’opera del lombardo. Il problema della luce – e del suo interloquire con l’oscurità – fu centrale, in quegli anni, nell’ambito delle “liturgie teatrali”?
In origine, l’esposizione dell’eucarestia nelle Quarantore non era così trionfale come fu in seguito, ma, proprio in ricordo del Sepolcro, san Carlo prescriveva pochissime luci, e l’eucarestia esposta ma sotto velo. Il silenzio e la penombra dovevano essere nella notte acutissimi… Ogni ora si succedevano i turni di adorazione. Le città erano attraversate da gruppi di fedeli, che andavano e venivano nel cuore della notte nelle chiese che, a turno, esponevano il Santissimo per tutto l’anno.
Ma le Quarantore non erano che una delle tante liturgie teatrali della Controriforma. Anche in questo caso, più che sui “grandi eventi” insisterei sul teatro del quotidiano, cioè sul fatto che le chiese della Controriforma erano il luogo quotidiano di culto, il cui fuoco teatrale, non solo per i tempi, le liturgie e il gioco dei volumi e delle luci, è il contrasto tra luce e tenebra. Per capirlo basta pensare all’arte rinascimentale, priva di ombra, o alle devozioni e rappresentazioni medievali, popolari, solari, di piazza.
Lei sostiene che Caravaggio scopre l’essenza del teatro moderno. Perché?
Argan trovava la pittura del Caravaggio “troppo tragica per rientrare nel canone poetico della tragedia”. Non ha tempo storico, non ha catarsi, non dà una spiegazione. Per Caravaggio “tutto è risolto al tempo esistenziale, in cui tutto è problema”. II far pittura “per lui era porsi davanti alla realtà, affrontarla e reagire, scoprendo il senso del proprio sé”. L’essenza del teatro moderno non è la tragedia, accettazione eroica di un destino immutabile e imperscrutabile, ma è il dramma della libertà, il confronto con la realtà, dura e cruda, una ricerca dell’Uomo tra vittime e carnefici, santi e derelitti, fitte tenebre e lampi di luce.
***
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