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di Adriana Conconi Fedrigolli
Carlo Monari, artista di cui solo di recente si è iniziato a delineare il profilo, è uno fra i maggiori scultori bolognesi della seconda metà dell’Ottocento, che con le sue immagini a volte ancora nel solco della tradizione accademica, a volte innovative e provocatorie traghetta i modi e gli stilemi espressivi dell’arte plastica felsinea nel Novecento. La sua produzione, amplissima e in parte da indagare, si rivolge con grande disinvoltura al genere funerario, presente soprattutto, ma non solo, tra i chiostri e le gallerie della Certosa, a quello pubblico, con il bozzetto del 1868 per il Monumento ai Martiri dell’Indipendenza, presentato al concorso poi vinto da Pasquale Rizzoli, con le Sirene del Ponte sul Reno a Bologna, concluse nel 1880, con il Monumento a Cavour del 1892 nell’omonima piazza bolognese, o al genere così detto “grazioso” abbondantemente documentato dal Fondo Belluzzi e da alcuni passaggi di sue composizioni sul mercato antiquario, come la Mima romana, portata dallo scultore all’Esposizione di Torino del 1884.
Tra le molte opere di carattere funerario avute in commissione alla Certosa di Bologna è incaricato anche di eseguire il Monumento di Saverio Muratori, collocato in una cappella della Galleria degli Angeli, acquistata dalla moglie nel 1879. Il dedicatario era stato un instancabile protagonista dei moti indipendentisti dell’Italia centrale: fece parte di coloro che marciarono su Roma nel 1831 e successivamente insieme al fratello Pasquale fu tra gli organizzatori del moto di Savigno dell’estate del 1843 che ebbe inizio dopo che la polizia pontificia, informata che si stava preparando una cospirazione, si spostò con un buon numero di gendarmi nel piccolo centro e avviò una sorta di processo contro i congiurati. I fratelli Muratori si misero a capo di un gruppo di uomini riuscendo a prendere d’assedio la casa occupata dalle truppe. Dopo questo fatto furono inseguiti e catturati dalla polizia pontificia. Saverio Muratori riusciva in quella occasione a scappare anche se di lì a poco era preso ed incarcerato.
Nel 1848 partecipò, insieme ad un nutrito gruppo di bolognesi ai combattimenti di porta Santa Lucia a Vicenza. A seguito del fallimento anche di questi moti insurrezionali, decise di espatriare lasciando per un lungo periodo la sua città d’origine. Tornò a Bologna, dove visse i suoi ultimi anni, solo dopo che il processo di unificazione della penisola fosse completato. Sulla lapide della sua tomba l’epigrafe delinea brevemente il suo profilo di patriota: ” SAVERIO MURATORI / CHE PER L’INDIPENDENZA D’ITALIA / SOFFRI’ IL CARCERE E L’ESILIO (…)”. Così, infatti, prende avvio l’iscrizione posta sotto il tondo marmoreo che raffigura il dedicatario nella parete laterale della cappella commissionata, a distanza di alcuni anni dalla morte, allo scultore Carlo Monari dalla moglie Teresa Muratori Rossi, ritratta successivamente di fronte al marito con le medesime scelte compositive. L’artista immagina, all’interno della piccola cella, un figura stante raffigurante un giovane genio-angelo vigilante, dai lunghi capelli, posto ad limen, con le mani aperte, alle cui spalle su un peduccio decorato è collocato l’introspettivo busto-ritratto di Saverio Muratori incorniciato da una cimasa, riccamente ornata con uno stemma di famiglia. La figura, attualmente mutila dell’avambraccio sinistro, è il centro dell’intera composizione e sintetizza in modo esauriente i caratteri stilistici dell’autore che innesta sulla matrice classica, appresa durante l’alunnato con Cincinnato Baruzzi, i modi propri del nuovo linguaggio verista. Il restauro ha rivelato raffinatezze estreme e virtuosismi tecnici nel trattare la materia, sia con delicate patinature nei capelli e nel panneggio, sia utilizzando strumenti diversi per conferire al marmo finiture differenti che accentuano gli effetti chiaroscurali.
L’opera può essere osservata da molteplici punti di vista, essendo evidente la rottura della forma chiusa e l’avvio al movimento suggerito in tutte le parti del corpo. Nell’immagine inoltre si assiste all’intrecciarsi e sovrapporsi di modalità espressive appartenenti a contesti rappresentativi e generi diversi tra loro, è proposta una figura che appartiene all’immaginario religioso, ma è trattata con le fattezze fisiche tipiche delle divinità mitologiche. L’angelo – genio incarna tutti i sentimenti di incertezza e di angoscia caratteristici degli ultimi decenni dell’Ottocento, perdendo quell’aura di rassicurazione tipica dei periodi precedenti: la croce, infatti, che tiene appesa al collo, appare girata nella parte posteriore come per negare metaforicamente le risposte sulla morte date dalla religione, così come allo stesso modo le mani aperte alludono ad uno stato di impotenza e lo sguardo rivolto verso il basso irradia un profondo sentimento di inquietudine che avvolge l’intera composizione.
Crediti fotografici: www.certosadibologna.it