Principio fondamentale delle mie ricerche era di fermare la commozione suscitata nel mio animo dalla contemplazione del paesaggio” (Carlo Carrà, “La mia vita”, 1943)
“Carlo Carrà. Il realismo lirico degli anni Venti” è il titolo della rassegna dedicata al grande maestro del Novecento italiano in programma al Centro Saint Bénin di Aosta. Abbiamo rivolto alcune domande ad Elena Pontiggia, curatrice dell’evento insieme a Massimo Carrà e Alberto Fiz.
Questa mostra, che si presenta con un rigoroso taglio filologico e scientifico, è stata pensata allo scopo di offrire una rilettura del percorso artistico, particolarmente lungo e articolato, di Carlo Carrà. Vuole spiegarci come è stata strutturata l’esposizione?
Si tratta della prima mostra dedicata specificamente alla stagione degli anni Venti dell’opera di Carrà. Certo, ci sono state in tempi recenti molte rassegne complessive sugli anni Venti, ma mai prima d’ora era stato messo a fuoco in particolare il “terzo periodo” – come lo chiama Carrà stesso – della sua pittura: un periodo incentrato soprattutto sui paesaggi. Intendiamoci, l’intento della mostra non è quello di rovesciare la scala di valori che assegna la massima importanza al periodo metafisico e a quello primitivista, che sono effettivamente stagioni di rilievo assoluto. L’intento è piuttosto quello di capire meglio la straordinaria suggestione di alcuni esiti di Carrà, appunto degli anni Venti, come testimoniano 25 delle 60 opere in rassegna. All’inizio del percorso espositivo, invece, abbiamo presentato l’artista attraverso una vasta serie di autoritratti e, insieme, di ritratti che gli hanno dedicato altri maestri a lui vicini, come Marinetti, Boccioni, De Pisis (che addirittura scrive su una tela uno squillante “W Carrà”), o gli scultori Manzù e Marini.
Nei primi tre decenni del secolo l’opera di Carrà riflette gli sviluppi artistici fondamentali del Novecento, dal Futurismo alla pittura metafisica, alla pittura murale degli anni Trenta.
Carrà è stato un protagonista dei principali movimenti artistici del ventesimo secolo: parlare di lui significa quasi ricostruire una piccola storia dell’arte italiana novecentesca. La mostra intende restituirne, pur in sintesi, una visione d’insieme, partendo da un’opera giovanile come “Ritratto del padre”, del 1903, e giungendo fino a “La stanza”, del 1965,dipinto pochi mesi prima della morte. Il periodo divisionista dei primi anni del secolo è testimoniato da alcuni paesaggi di intensa luminosità, come quello della Pinacoteca di Biella. Della stagione futurista vorrei citare “La donna e l’assenzio”, oppure “Ritmi di Oggetti” del 1911, della Pinacoteca di Brera, dove alcuni oggetti (una bottiglia, un vaso, un bicchiere) che dovrebbero essere fermi, vengono rappresentati, secondo la poetica futurista appunto, in un movimento frenetico, come in un mosaico impazzito.
Viene poi il periodo primitivista…
Sì, primitivista è un aggettivo che indica in Carrà sia le suggestioni che gli provengono dall’ingenuità stupefatta del doganiere Rousseau, sia dai maestri pre-rinascimentali, che allora venivano chiamati primitivi, come Giotto e Paolo Uccello (alla solidità plastica dei due maestri toscani, Carrà dedica degli scritti pubblicati su “La Voce” nel 1916, ndr). Un esempio di questo periodo è il dipinto “Ricordi d’infanzia”, dove alcuni giocattoli – la testa di un bambolotto, una palla, un piccolo cannone – sono rappresentati isolati nello spazio, sospesi in una specie di liquido amniotico. Si può trovare in opere come questa un parallelo con le poesie di Ungaretti, con cui Carrà trascorreva, come ricorda il poeta stesso, lunghe nottate a discutere d’arte e letteratura. In Ungaretti le parole sono isolate e quasi distillate nel silenzio, come gli oggetti di Carrà lo sono nello spazio.
Giungiamo così alla stagione degli anni Venti e alla ricerca postmetafisica. E’ in questo periodo che Carrà sembra abbandonare ogni incertezza stilistica nella direzione di un percorso assolutamente autonomo e personale.
Carrà definisce questa fase il terzo periodo della sua vicenda artistica, dopo quello futurista e quello metafisico. Un periodo caratterizzato da un colloquio con la natura, da cui nasce una lunga serie di paesaggi, interpretati attraverso ritmi, luce e colore. Bisogna ricordare che in quegli anni erano diffuse una sensibilità, una cultura idealista e platonica. Nel 1920, tra l’altro, ricorreva il quarto centenario della morte di Raffaello, e veniva sempre citata la sua frase: “Dipingo quella certa idea che ho in mente”. Gli artisti, dunque, aspirano a dipingere non soltanto la natura, ma anche l’Idea; non tanto le sensazioni, quanto la cristallina purezza della forma. I paesaggi allora non sono più semplice copia o rappresentazione di quel che si vede, ma una re-invenzione, una ri-costruzione della natura. Perciò lo stesso Carrà parla di “Realismo costruttivo” e di “Realismo mitico”. In queste tele il tempo si ferma, l’immagine assume una forma assoluta, non vengono rappresentati eventi atmosferici o aneddotici. Tutto è immobile. Per esempio, nel dipinto “Vele al porto”, un capolavoro del 1923 appartenuto a Roberto Longhi, le vele sono forme geometriche cartesiane, ascisse sulla tavola pitagorica del mare. Hanno una straordinaria nitidezza lineare, stemperata però nell’effusione, nella dolcezza, nel lirismo dell’impasto cromatico. E’ comunque il caso di ricordare – anche se certamente l’arte nasce sempre dall’arte – che Carrà trovò alcune fondamentali suggestioni nei luoghi stessi che visitava e che dipinse: luoghi che nel primissimo dopoguerra erano molto diversi da come ci appaiono oggi. La Liguria era ancora la terra amata da Nietzsche e da Renoir. Belgirate, sul lago Maggiore, non era differente da come l’aveva descritta Stendhal. La Valsesia (che Carrà frequenta tra l’estate e l’autunno del 1924, dipingendo e meditando su Cézanne) aveva luoghi di un incanto medioevale. E ancora, la Versilia, la sua “seconda patria”, in cui dal 1926 trascorre l’estate, era una sorta di “Polinesia toscana”, come l’ha chiamata Bigongiari: sulle spiagge si vedevano soltanto i capanni dei pescatori, le reti, le barche arenate, e sulla sabbia spuntava ancora qualche fiore.
Da un punto di vista strettamente tecnico, come affrontava il dipinto?
D’estate lavorava molto a contatto con la natura, ma poi le tele venivano terminate nello studio, a Milano, dopo mesi di ricerca. Come abbiamo detto, non era importante per lui solo la realtà, la natura, ma anche la forma mentale, la costruzione calibrata, secondo la sezione aurea e l’armonia delle proporzioni, della composizione. A volte Carrà tornava sulle sue opere anche a distanza di anni, sia per un sentimento innato di inquietudine espressiva, sia soprattutto per il desiderio di continuare a “sentirle vicine” col passare del tempo, “aggiornandole” secondo l’evoluzione del suo stile.