Scritta da William Somerset Maugham nel 1919, La luna e sei soldi racconta la vita di un immaginario pittore inglese, Charles Strickland, che adombra, in realtà, Paul Gauguin. L’opera si configura così come una sorta di biografia gauguiniana, romanzata ma insieme attendibile. Ne proponiamo qui di seguito alcune pagine.
La mia prima idea era stata di cominciare questo libro col resoconto degli ultimi anni di vita di Strickland a Tahiti e con la sua orribile morte, e poi di riandare verso il passato e narrare quel che sapevo intorno ad esso. Non volevo fare ciò per capriccio, ma perché desideravo terminare il libro descrivendo la partenza di Strickland per quell’isola verde e soleggiata, che tanto aveva tormentato la sua ammirazione.
Mi piaceva quest’uomo il quale, all’età di quarantasette anni, quando cioè la maggioranza degli uomini si dispone a godere gli agi procuratisi in gioventù, partiva per un nuovo mondo. Lo vedevo, sul mare grigio sotto il maestrale e punteggiato di spuma, guardare le coste di Francia che lentamente scomparivano e che egli mai più avrebbe riviste, e trovavo che nel suo coraggio e nella sua forza di sopportazione vi era qualche cosa di maestoso.
Volevo terminare con un inno di speranza: mi pareva che esso intensificasse l’inconquistabile spirito umano. Ma non ho potuto farlo. Non so perché, non ho potuto organizzare in questo senso il mio racconto, e dopo due o tre tentativi, ho dovuto rinunziarvi: ho cominciato dall’inizio della vita di Strickland, e ho compreso che valeva meglio narrare in ordine cronologico ciò che sapevo della vita di lui.
I fatti che ho da aggiungere sono assai frammentari. Mi trovo nelle condizioni di un biologo il quale da un semplice osso debba ricostruire non solo il fisico di un animale, la cui razza si sia estinta, ma altresì le sue abitudini.
Strickland non suscitò in coloro che lo conobbero a Tahiti alcuna impressione speciale. Per essi egli non era che un vagabondo in continuo bisogno di danaro, e che si differenziava dagli altri suoi compagni solo perché era capace di dipingere delle cose che a loro sembravano assurde; e solo molti anni dopo, quando gli incettatori di Parigi e di Berlino mandarono a Tahiti i loro agenti con l’ordine di comperare qualsiasi suo quadro che potesse trovarsi nell’isola, essi compresero che un uomo di eccezione era vissuto in mezzo a loro.
Essi ricordarono allora che avrebbero potuto comprare per una canzone quadri che ora valevano molte sterline, e non potevano perdonarsi di essersene lasciata sfuggire l’opportunità.
Vi era un negoziante ebreo, chiamato Cohen, il quale era riuscito in modo assai strano ad impossessarsi di un quadro di Strickland. Era costui un vecchietto francese, dallo sguardo dolce e dal sorriso amabile, mezzo commerciante e mezzo uomo di mare, il quale possedeva un cutter col quale vagava coraggiosamente tra la Paumutas e la Marquesas, trasportandovi mercanzie e ritirandone copra, conchiglie e perle. Mi recai da lui perché avevo saputo che egli conservava una grande perla nera di cui si sarebbe disfatto per poco; ma quando scoprii che, per quanto a lui paresse esigua, la somma era troppo rilevante per me, gli parlai di Strickland che egli aveva conosciuto. “Mi interessavo molto di lui perché era pittore – mi disse. – Non ve ne sono molti, qui, nell’isola, e la sua sorte mi rattristava molto perché dipingeva così male. Volli aiutarlo. Ho una piantagione nella penisola e desideravo per essa un sorvegliante bianco. Non si ottiene nulla dagli indigeni se non mettete alla loro testa un uomo bianco. Gli dissi: ‘Avrete quanto tempo vorrete per dipingere e potrete guadagnare anche un po’ di danaro’. Sapevo che era ridotto agli estremi, ma gli offersi un buon salario”.
“Immagino che sarà stato un sorvegliante tutt’altro che encomiabile” dissi sorridendo.
“Ero molto tollerante! Ho sempre nutrito una grande simpatia per gli artisti. Strickland rimase in carica pochi mesi. Quando ebbe sufficiente denaro per comperarsi delle tele e dei colori, mi lasciò. Ma io continuai a vederlo di quando in quando. Ogni due o tre mesi egli faceva una capatina a Papeete, e vi rimaneva qualche tempo: appena riusciva a raggranellare, in un modo o nell’altro, un po’ di denaro, scompariva di nuovo.
Fu appunto in una di queste sue permanenze che venne da me e mi chiese in prestito duecento franchi. Aveva l’aspetto di chi non ha pranzato da due settimane e non ebbi cuore di opporre un rifiuto. Ero persuaso che non avrei più rivisto il mio danaro. Un anno dopo, però, egli ritornò e mi portò un suo quadro. Non mi parlò neanche del danaro che gli avevo prestato, ma mi disse: ‘Questo rappresenta la vostra piantagione. L’ho ritratta per voi’. Guardai il quadro e non seppi che cosa rispondere. In ogni modo lo ringraziai, e quando egli si fu allontanato mostrai la tela a mia moglie”.
“E com’era questo quadro?” chiesi.
“Non me lo domandate, perché non riuscii a capirne niente. Non avevo mai visto una cosa simile in vita mia. ‘Che cosa ne faremo?’ domandai a mia moglie. ‘Non possiamo appenderlo alla parete, rispose ella, la gente riderebbe di noi’. E, preso il quadro, lo portò in soffitta tra mille altri oggetti inutili di cui non riesce mai a liberarsi. Sono la sua mania.
Immaginate la mia sorpresa quando, poco prima che scoppiasse la guerra, mio fratello mi scrisse da Parigi: ‘Sai qualche cosa intorno a un pittore inglese che visse a Tahiti? Pare che sia stato un genio e i suoi quadri si vendano a prezzi favolosi. Vedi se ti riesce di rintracciare qualche sua tela e spediscimela. C’è da guadagnare parecchio’. Allora dissi a mia moglie: ‘Che ne pensi di quella pittura che mi regalò Strickland? E’ ancora in soffitta?’. ‘Senza dubbio, rispose ella, sai bene che non permetto che nessuno tocchi quanto io metto da parte’.
Andammo in solaio, e là, tra mille oggetti inutili e ingombranti, ammucchiatisi durante i trent’anni in cui eravamo rimasti in quella casa, c’era anche la tela in questione. La guardai e dissi: ‘Chi avrebbe mai supposto che il sorvegliante della mia piantagione, al quale diedi in prestito duecento franchi, fosse un genio? Comprendi tu qualche cosa di questa pittura?’. ‘No, rispose mia moglie; non assomiglia minimamente alla nostra piantagione e non ho mai notato che le foglie dell’albero di cocco siano azzurre. Ma poiché a Parigi sono pazzi, potrebbe anche darsi che tuo fratello riesca a vendere questo quadro per i duecento franchi che tu prestasti al suo autore’.
Spedimmo il quadro a mio fratello, e dopo qualche tempo ricevetti una sua lettera. Sapete che cosa mi scriveva? ‘Ho ricevuto il quadro che mi hai spedito e a tutta prima ho creduto che tu volessi farmi uno scherzo di cattivo genere. Non avrei dato per quel quadro neanche quanto era costato per spedirlo fin qui. Avevo paura a mostrarlo al cliente che mi aveva parlato di Strickland. Immagina la mia sorpresa quando egli, esaminata la tela, mi disse che era un capolavoro e mi offerse per essa trentamila franchi. Forse avrebbe pagato anche di più, ma io non seppi nascondere la mia sorpresa ed accettai il prezzo prima che mi fossi completamente rimesso dallo stupore’”.
E qui il signor Cohen disse una cosa magnifica: “Avrei desiderato che il signor Strickland fosse ancora vivo. Chissà che cosa avrebbe detto quando io gli avessi consegnato ventinovemilaottocento franchi come ricavato del suo quadro”.