di Vittorio Sgarbi
Davvero impeccabili, le mele di Cinzia Bevilacqua. Braeburn, golden, renette, elise, sempre sode, dalla buccia lucida e colorata, con passaggi ben calibrati da un tono all’altro, certamente succose, un vero inno all’agricoltura; ma inutile cercarle nei campi o dal fruttivendolo, non le trovereste mai come ve le fa vedere la Bevilacqua. Perché quelle mele, per quanto naturalissime, non sono natura, sono riflessioni estetiche su di essa, modo d’interpretarla attraverso le sue forme. Che si rifanno ad altre riflessioni precedenti, Cézanne prima di tutti, direi, per la stessa istintiva predilezione avvertita per il pomme, il frutto primario. Quello, per intenderci, che ci ha fatto perdere il paradiso, rendendoci per sempre imperfetti, che ha fatto da premio alla donna più bella della mitologia pagana, facendo da causa remota alla guerra più famosa di tutti i tempi, che ha rivelato il segreto della forza di gravità, ovvero la nostra condizione di esseri pesanti, sottoposti irrimediabilmente all’attrazione terrestre, cadendo in testa a un giovane studioso inglese in quel di Woolsthorpe, anno di grazia 1666. Ecco, la mela della Bevilacqua, nel momento in cui si offre al nostro sguardo, è quella di Adamo, Paride e Newton piuttosto che quella che potreste trovare al mercato. Non è una mela, é la mela, anche quando si presenta, come prevalentemente succede nelle opere della Bevilacqua, in insiemi uniformi di oggetti simili, le mele. Cézanne, dicevamo, ma fino a un certo punto, o meglio, fino a una certa data. Perché dopo il 1890, il maestro francese si è messo a cercare l’origine del tutto, l’esprit de geometrie come idea fondante della natura, una volta estratto dalle mele, ora diffusosi nell’aria lungo piani ravvicinati che fanno coincidere frutti e spazio in un’unica, suprema marmellata per gli occhi e, più ancora, per la mente. La Bevilacqua rimane alle mele, convinta del fatto che non siano una semplice applicazione di qualcosa di più grande e universale, ma, al contrario, che riescano a sintetizzare nel modo migliore la possibile compiutezza dell’esprit.
Più, dunque, la mela si darà come entità esattamente distinta, autosufficiente nella linearità del suo contorno come nella pienezza del suo volume, nella capacità di riflettere luce come in quella di generare ombra, più sarà in grado di emanciparsi da quanto la circonda e dimostrare la propria perfezione, che di rimbalzo è quella della natura. è chiaro che una connotazione di questo genere pone quella mela in una dimensione diversa da quella percettiva, come fosse un eccesso, un’esagerazione di natura, cosa che solitamente non succede nelle nostre abituali esperienze di vita. è il concetto alla base di tanto realismo novecentesco, compreso il più caratteristico, quello detto magico, al quale le nature morte della Bevilacqua si avvicinano maggiormente, come se ne fossero figlie o nipoti putatitve, resistite meravigliosamente al passare del tempo. Niente potrebbe essere più mentale del realismo, ci dicono quelle opere, perché non persegue la natura, ma la sua idealizzazione, l’“ultra-natura”, la glaciazione estraniante, l’imbalsamazione nell’assoluto.
In quelle mele, in fondo più di gesso che di polpa carnosa, giustamente, talvolta in dialettica combinazione con il vetro di virtuosistici contenitori che diversificano e amplificano le manifestazioni della loro perfezione, si anela a cogliere non il fremito passeggero del transeunte, ma l’odore stagnante dell’eterno, anche a costo di ridurre al minimo l’apporto della vita. Ecco la filosofia alla base di questa pittura: nessuna perfezione è sopra e al di fuori delle piccole cose della natura, anche se per avvertirne l’essenza bisogna, in un certo senso, ucciderle, congelarle, staccarle dal loro rapporto con la vita. Belle quelle mele, ci viene da dire, ma nessun desiderio proviamo per esse, sentiamo di essere lontani dal loro universo, forse estranei, possiamo solo contemplarle, come fossero oggetti di devozione. Non a caso, il registro cambia decisamente quando la Bevilacqua affronta la figura umana, e l’oggetto non è più legittimato ad estraniarsi, a fare del realismo uno strumento di lontananza, invece che di vicinanza. E la maniera si scioglie, in modo anche imprevedibile, il disegno allenta la sua tirannica, metafisica regolarità, il colore si annacqua e sfilaccia, riportando le cose alla loro imperfezione, alla loro provvisorietà, alla loro vulnerabilità alla più umana delle debolezze, il sentimento. Chissà se un giorno quei corpi incerti, anche quando forti, non conosceranno la fascinosa, atarassica imperturbabilità del mondo delle mele, morendo forse nella vita, ma vivendo nello spirito dell’eterno.
“LA MELA” di CINZIA BEVILACQUA
fino al 10 novembre 2014
c/o Daniel, via Repubblica 64, Sarezzo (Bs)
Cinzia Bevilacqua – Il periodo della mela, letto da Vittorio Sgarbi
"La Bevilacqua rimane alle mele, convinta del fatto che non siano una semplice applicazione di qualcosa di più grande e universale, ma, al contrario, che riescano a sintetizzare nel modo migliore la possibile compiutezza dell’esprit.Niente potrebbe essere più mentale del realismo, ci dicono quelle opere, perché non persegue la natura, ma la sua idealizzazione, l’“ultra-natura”, la glaciazione estraniante, l’imbalsamazione nell’assoluto".