di Maurizio Bernardelli Curuz
A colloquio con Stefano Cecchetto, curatore, con Elena Càrdenas Malagodi, della mostra “Dada a Zurigo”, in programma allo Spazio culturale svizzero di Venezia.
Il Dadaismo nasce durante la prima guerra mondiale e sostanzialmente, almeno nel suo nucleo originario, finisce nel 1919 per poi prendere, in forme più o meno sotterranee, altre strade che lo porteranno ad essere uno dei principali substrati artistici del Novecento. Da cosa nasceva questa scelta di contestazione totale?
Nasceva indubbiamente dal clima bellico, dalla reazione, di un gruppo di poeti, di intellettuali e di artisti, a un periodo caratterizzato da un’estrema violenza. Possiamo proprio parlare di una reazione poetica alla guerra, condotta in Svizzera, in uno Stato neutrale. Una risposta che prese fortemente le mosse da presupposti letterari.
Potrebbe darmi una definizione sintetica di Dadaismo, finalizzata all’individuazione della sua specificità?
Vorrei proprio partire dalla definizione terminologica, poiché ciò consente di capire la forza del gioco dadaista. Il termine “Dada” non ha nessun significato, è un’invenzione letteraria. C’è una frase di Arp che è estremamente illuminante, in tal senso. Parlando del poeta Tzara, dice: “Tristan ha trovato ‘Dada’ l’8 febbraio 1916 alle 6 di sera. Io ero presente con i miei dodici figli quando ha pronunciato per la prima volta quella parola che ha scatenato in noi un legittimo entusiasmo”.
Una parola priva di significato contro l’eccesso di significato della guerra e del linguaggio borghese che punta sempre a perfezioni scientifiche…
Questi contestatori della guerra propongono un’arte di invenzione, che si pone come rottura degli schemi: ecco il collage, la grafica dirompente… In mostra abbiamo un quadro di Arp fatto ad uncinetto. La finalità del gruppo era quella di rompere gli schemi della pittura e trovare forme espressive nei materiali. E così avviene nel cinema dadaista, con la scoperta di un linguaggio basato sul collage visivo.
Due, in quel periodo, sono le avanguardie che intendono annientare l’arte borghese: il Cubismo in Francia, il Futurismo in Italia. Quali sono gli apporti di entrambi i movimenti nella costituzione del Dna Dada, e quali i punti di divergenza?
Il Cubismo influisce maggiormente sui dadaisti non italiani. Gli italiani portano invece, per quanto esistesse una linea fortemente critica al movimento marinettiano, alcune modalità espressive legate al Futurismo. Le prime innovazioni del movimento sono legate soprattutto alla parola e al modo in cui si scrive, cioè alla grafica. Il Dadaismo è stato soprattutto un movimento di matrice grafica, ricco di invenzioni legate alle inclinazioni e alle scomposizione delle lettere e delle parole.
Il Dada assunse specifiche caratteristiche politiche?
Al di là della contestazione bellica, che può essere già una presa di posizione politica, direi essenzialmente di no. C’è un episodio curioso che fa capire quanto Dada non possa essere considerato come un movimento vicino alla sinistra storica. Lenin, durante quel periodo, viveva in Svizzera. Abitava proprio di fronte al Cabaret-Voltaire, luogo in cui si svolgevano gli incontri del gruppo. Lenin una sera, disturbato nei suoi studi, chiamò la polizia perché mettesse a tacere quel gruppo di scalmanati.
Nel 1919 il gruppo svizzero entra in crisi. Ciò è provocato dalla fine della guerra?
Con la fine della guerra, gli artisti e gli intellettuali tornano ai Paesi d’origine. Si allontanano dalla Svizzera, non hanno più l’esigenza di permanere in un territorio che offra sicurezza e neutralità. Ecco il ritorno e gli sviluppi successivi del Dadaismo sui territori nazionali. Possiamo indicare due direttrici principali: quella della Francia, che metterà in incubazione parte dei fermenti dadaisti in funzione surrealista, e quella della Germania (pensiamo a Grosz). L’esperienza Dada resta comunque unica. Forse possiamo pensare in questi termini: il fenomeno Dada nacque in un paese di vacanza, mentre il mondo andava a fuoco, come rifondazione giocosa del mondo.
L’importanza della vostra mostra sta nella proposta dello stesso gruppo di artisti presenti nella storica rassegna del 1917. E’ un flash back rilevante. Quali risultano le proposte artistiche più sconvolgenti?
La rassegna del 1917 non aveva i connotati di mostra, come li intendiamo oggi. Il Cabaret-Voltaire offriva un tourbillon di eventi, spettacoli, incontri di poesia. Ogni artista veniva con i quadri sottobraccio, e ciò che era rappresentato su quei fogli era soprattutto un’espressione visiva di quanto veniva sviluppato nei termini della musica e del ballo. Quasi una scenografia dello spettacolo, che poteva cambiare tutte le sere.
E voi, sotto il profilo iconografico, avete ricostruito quelle atmosfere…
Abbiamo portato in mostra gli autori di quei giorni. Siamo anche riusciti a recuperare qualche pezzo che inequivocabilmente è stato esposto al Voltaire. Tra queste opere un disegno di Modigliani che raffigura Max Jacob. Le fonti ci danno certezze assolute per quanto concerne l’identificazione. C’è un Segal di chiara matrice cubista e futurista, spettacolare, anche sotto il profilo delle dimensioni. Un grande quadro atipico, per quel segmento d’epoca, molto ampio e particolare, se si considera il fatto che buona parte delle opere era costituita da disegni su carta ed era realizzata con tecniche miste. In mostra abbiamo anche un bellissimo ritratto di Richter, il “Blauer Man”. Hans Richter è uno dei protagonisti, uno dei più fedeli se si considera che fino agli anni Settanta continuerà a produrre ready made dadaisti. Per ricostruire il clima di quei giorni, abbiamo poi opere di Arp, Man Ray, Duchamp, Janco, De Chirico, Savinio, Severini, De Pisis e Prampolini. Gli italiani, in buona parte, venivano dall’esperienza futurista. Anch’essi si erano rifugiati in Svizzera per sfuggire agli orrori della guerra. La mostra presenta un corpo centrale di circa quaranta pezzi (disegni, dipinti, opere su carta, litografie e collage) che consentono di ripercorrere l’avventura Dada.
Ecco: gli italiani. I dadaisti non vedono di buon occhio i futuristi.
E non sempre i dadaisti vedono di buon occhio tutti gli italiani. Pensiamo al caso di De Pisis. L’artista, che si proponeva al gruppo come scrittore, fece di tutto per essere accolto dai dadaisti, ma venne fortemente ostacolato da Tzara, al quale, evidentemente, non piacevano i suoi pezzi. Una volta l’italiano ha provato persino a inviare due quadri, ma non c’è stato nulla da fare. In questa mostra abbiamo voluto creare un “falso storico” per rendere onore a un grande pittore italiano. Di De Pisis presentiamo due quadri di forte matrice dadaista. Non sono i lavori che egli inviò infruttuosamente a Zurigo (quelli sono andati persi), ma due opere dello stesso periodo. Collage obbligatorio.
Perché tanta resistenza nei confronti di De Pisis?
Non se ne riesce a capire pienamente il motivo. Le resistenze di Tzara sono molto evidenti – pur in maniera indiretta – nelle lettere che gli inviava De Pisis. Il marchesino cerca di incontrarlo quando Tzara scende a Roma, ma il poeta è irremovibile. Tzara preferisce invece incontrare Prampolini, in quel momento critico rispetto al Futurismo. E’ chiaro che ai dadaisti interessavano soprattutto gli artisti che stavano staccandosi dal Futurismo. Ciò per creare un più marcato antagonismo e una contestazione che, considerato il diverso atteggiamento nei confronti della guerra, assumeva anche una connotazione politica.