di Luca Massimo Barbero
Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore e dell’editore, uno stralcio del saggio introduttivo del catalogo della mostra Vedova. Monotypes, recentemente allestita alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia.
[L]a pittura di Vedova si svolge nelle verticali (dai Plurimi che si alzano minacciosi agli ultimi allestimenti veneziani) negli spazi “appesi”, nelle colature che non indugiano, trascinando dentro lo spazio della pittura altre dimensioni, altro “materiale”: il tempo. In questi monotipi il tempo si compie. Le risorse del procedimento sono amplificate, il formato di questi Spazi/Opposti ci suggerisce un altro accesso: una dimensione privata dell’opera che trova nuova proporzione, uno stare, trasferito in queste carte “da tavolo”, ritrovate in una dimensione di scrittura, di partitura: diario quotidiano del fare. Stanze. Specchi. E’ attraverso l’Autoritratto (1937) che siamo invitati ad entrare in questo mondo rovesciato, in questo specchio. O da dietro, come nella Crocefissione. Riflessi, apparizioni fugaci, immagini senza corpo, o paesaggio d’acqua, fluido inquieto, trasparente: …in quella mobilità, in quel discorso spaziale fatto di relatività, di continuo trasformarsi, in un dissolversi di piani: un non chiudere, un non fissare… Quel tutto costruire nella luce quei piani dinamici… per la sua instabilità… Lastre metalliche lucidissime “ancorano” anche molti dei cicli successivi, offrendo allo sguardo una mutevole, doppia, ambigua, plurima presenza (ricorre in molti dei quaderni di lavoro di questi anni il tema di Narciso e del suo riflesso). Il transfert si offre in un enigmatico raddoppiamento, moltiplica e amplifica le ragioni. Senza fissa “dimora” ci apre un altro possibile sguardo sul reale.
La pittura procede per invenzioni, contraddizioni, “capricci”. Vibra, purissima, quasi effimera; “evapora” per divenire un opaco schermo; appare quasi evanescente; arriva ai limiti dell’invisibile, dell’inaudibile, …l’incontro fisico con la materia avviene in ambito di complessa osmosi, un segno sullo zinco, sulla lastra metallica, inchiostro o scavo = imprevedibili possibilità = capillari osmosi…
Ribollire di segni, di gorghi, di stagni, di residui trascinati, di tensioni dissipate nelle campiture piene dell’inchiostro schiacciato.
Una “tauromachia” sotto cieli tormentati, tra i flutti del diluvio, delineati da precarie quanto decise tracce di movimento. Pieghe barocche, arabeschi mai astratti …da una materia-pellicola… amorfa, recuperante traslati, – captante – cieca / le mani intercettanti, da fondi da filtrati per “altro”… Un trasporto alle soglie del colore stesso reso evanescente, cangiante. Altrove colori fuligginosi, polverosi, non decisi ma rotti, interstiziali, possibili. Risuonano nei fondi i verdi lagunari, i rossi bruni e terrosi, i grigi luminosi e trasparenti, quasi aerei. La stessa immateriale sostanza, gli stessi “latenti fantasmi”, aberrazioni proteiche non illusorie di quei possibili paesaggi “urbani”, di questo altro inquieto e cangiante ritratto. “Documenti del profondo”, evanescenti eppure non privi di architettura, di discorso. Struttura che in alcuni fogli si rivela nella composizione a “dittico”, in quell’ulteriore sguardo, su altre “informazioni”, seguendo altre piste, altre tracce.
In questa serie di monotipi, Vedova sembra consegnare tutta la sua possibile maestria del lavorare in Opposto con la pittura. L’immagine del suo Autoritratto, compiuta posando lo specchio a terra e colmatolo con la propria immagine che dovrà manifestarsi nella superficie posta “sullo spazio opposto” allo specchio, sembra esserne la prima fonte. Così lo scivolare, il possedere del colore sulle lastre d’incisione, la pressione delle mani sul nylon in transfer di in continuum… sono l’ennesima sfida e realizzazione di far coincidere la pittura ed il suo Spazio opposto che si manifesta specularmente su di un altra superficie. Emblematici in questa serie di monotipi le opere dove sull’idea di spazio e suono di fondo (un’anima di colore sospesa, latente e trasparente) il maestro segna con la traccia delle sue mani, imponendo all’immagine la matrice stessa del suo farsi e del fare dell’artefice.
Vedova in questi lavori pensa e sospende la pittura con un doppio pensiero.
La tecnica, il segno, il colore sono innati e suoi, ma vi è, da subito, l’Idea che lo spazio ch’egli sta dipingendo sia necessario al determinare il suo Opposto, il Monotipo, la carta che accoglierà, trasformandola, la pittura ch’egli evoca e costruisce in quel momento. Sono segni che si muovono e si costruiscono fluidamente in uno spazio talvolta venezianamente equoreo (come di una memoria) altrimenti uno spazio energia, sferzato da queste materie specchianti le tracce di colore, segni improvvisi, lacerazioni di colore. Sono segni che cercano con un urlo impennato di avvolgere lo spazio, possederlo, costruirlo. I rossi inarrivabili combattono i neri ed i grigi posti quasi come “in affogamento” nella carta, sublimi tracce della trasposizione, possibile solo in questa tecnica di pensiero e di “trasporto”. La possibilità di poter ottenere suoni di colore lontani, evanescenti, emergenti dalle profondità della carta impregnata, dà a Vedova un Campo d’Azione infinito. La Natura sembra aver fatto il suo corso, ognuna di queste pitture rappresenta ed è emblematica di un Avvenimento, unico, irripetibile, necessario. Così appaiono abissi oscuri lacerati dalle battaglie della luce e del colore acceso. Immersioni del colore sferzanti, evocanti trasparenze, pressioni, pulizie e raschiamenti delle lastre con cui l’artista costruisce l’impronta del monotipo. Spazio infinito ed esistenzialmente vivo, senza mai un attimo di tregua, di compiacimento, di calma. Sembra che dal momento stesso in cui il maestro inizia a stendere, distribuire, pensare la pittura, sia tutto naturalmente vocato all’essere trasferito nella carta, non come traccia ma come essenza, come risultato. Per questo, vibrano in modo particolare i segni delle sue mani sui fogli, questo costante premere, dirigere, toccare la pittura per farla, determinarla, possederla. Tutto è Doppio ed uno, è il dialogo che l’artista crea in assoluto non con il Doppio (come accadrebbe in grafica) ma appunto con l’Opposto dello spazio della Pittura.