di Enrico Giustacchini
[E] dire che, negli anni giovanili, quando lui e i suoi amici si definivano “profeti”, veniva chiamato “le Nabi très japonard”, il più giapponese tra i Nabis. Studiava con foga, infatti, Hokusai e gli altri, dipingeva superfici rigorosamente piatte con colori rigorosamente puri. Se abbiamo davanti agli occhi i quadri della maturità, pare impossibile anche solo credere che l’avventura creativa di Pierre Bonnard (1867-1947) fosse partita da lì. Eppure, a ben pensarci, un concetto a cui rimanere fedele per tutta la vita era già chiaro nella sua mente: il concetto della supremazia del colore come fondamentale strumento narrativo. Molto presto – quando è ancora in qualche misura intruppato, pur in quel suo modo anomalo, da insofferente qual è agli schematismi e alle parole d’ordine di gruppi e movimenti, tra le fila dei Nabis – Pierre comincia a scalpitare. La pennellata si fa più anarchica, il colore prende a lievitare entro i recinti delle forme, sino a provocarne i primi scricchiolii. Come il suo sodale Vuillard, egli decide di guardarsi intorno. Guarda anche all’impressionismo, a Monet, Renoir, Degas. Ne subisce, certo, l’influsso: ma la lezione è assorbita solo in parte, ed assai criticamente. Bonnard stesso dichiarerà poi di aver cercato di superarne l’intento naturalista: “L’arte non è la natura… c’era molto di più da trarre dal colore come mezzo di espressione”.
Il giovane Pierre ha le idee ben chiare. Ed inizia così il suo viaggio, “un viaggio contemplativo – scrive Maria Teresa Benedetti nell’esemplare saggio per il catalogo (edito da Skira) della mostra Matisse e Bonnard. Viva la pittura!, in corso al Complesso del Vittoriano a Roma – nel quale gli elementi familiari conservano una carica emotiva primaria, riflettono la complessità di un’esperienza totale del reale”.
Pierre scruta dentro e attorno a sé. Si rende conto, come trascorso da una rivelazione folgorante, che un quadro altro non potrà essere, per lui, che “un arresto nel tempo”. Uno spazio a cui affidare memorie, squarci, epifanie di cose e persone e paesaggi.
Da rivelare attraverso il colore.
Pierre e il teorema
della sfera magica
Già, il colore. Sempre ed ovunque. A cavallo tra il primo e il secondo decennio del Novecento il Nostro vagabonda a lungo nel sud della Francia, ubriacandosi delle violente cromie mediterranee. Una sbornia che lascia il segno, ma che richiede anche qualche contromisura. “La sensazione di aver sacrificato forma e composizione a un colore che può sconvolgere induce Bonnard a cercare un controllo. Avverte che l’allusività e la mobilità della sua visione, il suo ‘essere sprofondato nella pittura’, devono essere governati da leggi. Una nozione compositiva disciplina così la profusione cromatica dei suoi quadri, una forma regola gli spazi e l’esplorazione del colore – osserva Benedetti. – Il disegno appare allora come salvezza, ma Bonnard, che è pittore di climi, lo trasforma in strumento per registrare la sensazione, mentre il colore è elemento razionalizzatore. Piccoli disegni sono punto di partenza per catturare mutamenti atmosferici ed emozioni, premessa a dipinti eseguiti in studio. Così l’artista integra forma e struttura in un’atmosfera di luce”.
La strabiliante capacità di trasformazione della luce è, del resto, un dono della natura troppo grande per non essere assunto a mezzo espressivo fondamentale da un poeta come Pierre. Un mezzo che gli consente tra l’altro di sviluppare quella cifra compositiva che rende inconfondibile la sua opera. “Soggetto principale è la superficie, che ha il suo colore, le sue leggi, al di là degli oggetti” sosteneva il pittore. E – al di là degli oggetti – la luce trasmutatrice pervade le forme, svapora i dettagli, contribuisce in modo decisivo alla creazione della visione bonnardiana: dove l’interno si fonde con l’esterno, il salotto con il giardino, il giardino con il borgo, il borgo con prati, cieli e montagne che credevamo remoti; dove lo sguardo è quello di chi è dentro, e non davanti alla realtà, e ne percepisce simultaneamente ogni angolo, quasi sospeso nel nocciolo di una magica sfera.
Il miracolo sta appunto nel fatto che tale magica sfera è riconducibile alla “superficie”, elevata a “soggetto principale”. Una sfera aperta ed adagiata su di un unico piano, che non prevede prospettiva, né distacco spaziale fra gli elementi della rappresentazione, eppure tutto conchiude in sé.
Non per nulla Bonnard costruiva talora i propri dipinti attorno ad un centro, ad un nucleo vuoto, fulcro per la rotazione satellitare di persone e cose, in un sorprendente accumulo di tagli, inquadrature, sovrapposizioni, effetti luminosi, dominanti e contrasti cromatici. Nel suo notevole saggio, Maria Teresa Benedetti ci ricorda qual era il metodo di lavoro dell’artista. “Egli fissa al muro un pezzo di tela tagliata con le sue stesse mani, inchiodandola al telaio soltanto alla fine, considerando il supporto area illimitata, allargando al massimo il campo visivo. Getta su di essa le linee essenziali di un quadro, nato da appunti presi davanti alla natura o a un momento della vita, legando eleganza e meditazione, testimoniando una sensitività sempre allarmata, aliena da regole precostituite. ‘Non ci sono regole, non appartengo a scuole, cerco soltanto di fare qualcosa di personale’”.
Il Paese dei sogni?
Si chiama Le Cannet
La memoria, il sogno. Fondamenti della poetica di Pierre Bonnard. L’eternità di un attimo. Il suo perdurare, contro la schiavitù della fuggevolezza. Carpire tale istante quasi furtivamente, e tuttavia consapevoli di poterlo cristallizzare nell’incantesimo di un dipinto, nello stupore di una “visione naturale”.
Insomma, per usare le parole di Franco Russoli, “Bonnard non è un ‘occhio’, come Monet; per lui l’elemento soggettivo, l’intervento sentimentale e razionale sul dato di natura, il riporto intenzionale dello spettacolo alla propria situazione psicologica e spirituale, sono alla base di una scelta tendenziosa… Il comune denominatore esistente tra i punti opposti del suo procedimento linguistico – quello dell’estrazione di ritmi grafici e cromatici dallo spettacolo naturale, e quello dell’immersione, sensi e sentimenti, nella totale presenza di tale spettacolo – è l’esigenza di dare l’immagine della verità momentanea, fuori da ogni mito e da ogni trascendenza. Di bloccare, cioè, il fenomeno, l’hic et nunc, in ogni suo aspetto e suggestione, in sé e in rapporto all’individuo osservante, sia operando una riduzione della ‘cosa vista’ agli elementi espressivi più caratterizzanti e sintetici, sia addensando, entro i confini dello schermo visivo, in un organico fermento molecolare di segni e di colori, ogni elemento della realtà apparente, inseguendola nel suo perenne trasformarsi e vivere. Nell’immagine immediata, nello specchio del vero di Bonnard – continua Russoli -, non abbiamo più il rendiconto impressionista di una realtà ‘esterna’, né la rivelazione, l’illuminazione romantica di una corrispondenza tra senso e sentimento, ma una ben più complessa fusione di spazio e di tempo, di dimensione e di durata”.
Sempre sospeso tra sogno e realtà, il pittore trova il proprio eden nell’aura radiosa e profumata di Le Cannet, cittadina dove si trasferisce nel 1926 e che sarà sino alla morte il rifugio prediletto, condiviso con Marthe, la fedele compagna sposata un anno innanzi (Pierre aveva incontrato Marie, detta Marthe, Boursin, nel 1893. Del 1894 è il primo ritratto della donna, che comparirà poi in un numero incalcolabile di quadri dell’artista).
A Le Cannet nascono molti capolavori. Reiterati i temi: le stanze e gli strumenti della quotidianità, il paesaggio contiguo. Talvolta, una finestra scandisce l’osmosi o il distacco tra ciò che è dentro e ciò che è fuori. Un altro degli amici di un tempo, Maurice Denis, nel 1934 dirà, sbalordito e commosso, della “giovinezza persistente” delle opere di Pierre; Pierre che “riesce a ricreare ogni spettacolo od ogni oggetto con uno spirito sempre nuovo, obbedendo al suo sogno, quasi come un sonnambulo che stravolge i valori, che sostituisce alla logica naturale la sua propria logica e può esprimere così la sua ironia e la sua tenerezza di osservatore meravigliato.
Se si paragona ad altri artisti dotati per le fantasmagorie di colori, Matisse per esempio – aggiungerà -, si è colpiti da tutto quello che sottintende la pittura di Bonnard. Non c’è un solo soggetto che non sia carico di un significato psicologico. Ah! Le mie due deformazioni, oggettiva e soggettiva, lui le pratica senza pensarci: quella che di ogni tavola fa un tappeto di un colore unico e caratteristico e quella che gli dà il fascino di un poema raffinato, sono l’armatura invisibile di un’opera che è anche il chiaro trionfo delle sue doti prodigiose e della sua sorridente fantasia”.
Pierre Bonnard continua a lavorare sino all’ultimo. Nel proprio eremo, lontano dai clamori, ignorando le sirene delle avanguardie, serenamente assorto e votato al compimento della missione di un’intera esistenza, quella di cercare la verità nel rammemorante baluginio del mondo.
“Non si tratta di dipingere la vita – aveva affermato una volta -. Si tratta di rendere vivente la pittura”.