di Giovanna Galli
Museo cantonale d’arte di Lugano ha ospitato la mostra “Da Kandinskij a Pollock. La vertigine della non-forma”. Oltre cento fra dipinti e opere su carta realizzati dai massimi protagonisti del XX secolo, che – pur conservando le loro specifiche individualità – si mossero in una comune direzione volta al superamento del concetto tradizionale di forma proprio della cultura artistica occidentale, determinandone un generale e radicale rinnovamento. “Stile” ha intervistato il Direttore del Museo, Marco Franciolli, che ha curato insieme a Lorenza Trucchi l’allestimento.
Un breve preambolo per capire ciò di cui parliamo. L’arte informale, pur appartenendo al mondo dell’astratto, ha una sua specificità. Può aiutarci a darne una definizione.
Semplificando al massimo, possiamo affermare che la nostra esposizione intende presentare il superamento del concetto di forma nell’espressione, che, a un certo punto nella storia dell’arte, si è affrancata da ogni regola, per essere libera di fare della sostanza emozionale la base, l’essenza stessa della pittura, attraverso tre fondamentali direzioni: quella del segno, del colore e della materia. E’ opportuno, d’altra parte, operare una distinzione categorica con quel versante geometrico della pittura astratta, sviluppatosi più o meno nello stesso momento, intorno agli anni Dieci del secolo scorso, che si manifestò attraverso l’abbandono sì della forma, ma con l’affermazione di una serie di regole ben precise.
La crisi della figura e della pittura narrativa – che portano alla “non forma” – può essere fatta lontanamente risalire all’ultimo Monet. Le sue ninfee o i suoi covoni, quasi solarizzati, lasciano il campo aperto alla ricerca astratta. Cosa induce a questa necessità di annullamento di tracciati facilmente leggibili?
Tutto ha avuto avvio ancor prima, rispetto a Monet, con alcune figure appartenenti al Romanticismo. Turner, ad esempio, con il suo luminescente disfacimento del paesaggio, rappresenta un punto di riferimento fondamentale, rispetto a quella “liberazione” dalle regole della tradizione a cui si faceva cenno. Rispetto alla necessità di abbandonare tracciati facilmente leggibili, da un lato occorre ribadire la responsabilità che ebbe la scoperta della fotografia, che determinò la caduta di quello che fino a quel momento era uno dei sensi fondamentali dell’arte, e cioè la funzione di riprodurre fedelmente la realtà. Un mezzo meccanico ora provvedeva a questo compito, sollevando l’artista dal vincolante incarico e consentendogli di scandagliare altri aspetti del mondo circostante. E’ il caso ad esempio delle visioni di Redon, elaborate a partire dalle immagini di un mondo fino ad allora invisibile, svelato dalla micro-fotografia, che offriva agli artisti una inedita gamma di elementi espressivi. Fondamentale fu, naturalmente, anche il bisogno avvertito dai pittori di procedere in sintonia con un’epoca storica, che affrontava in quel tempo la rottura con la tradizione e l’avvio di un “nuovo corso” in tutti i settori.
Parliamo di Kandinskij, il capostipite dell’informale. Egli narra il momento in cui capì che la strada nuova stava nell’abbandono della figura e della riconoscibilità del paesaggio: era in casa sua, la luce del tramonto che picchiava su un suo quadro appoggiato di lato contro il muro, gli fece scoprire una dimensione nuova, accompagnata da un senso di vertigine… Quali sono stati i primi passi compiuti da Kandinskij in quella nuova dimensione?
In Kandinskij fu illuminante la presa di coscienza dell’esistenza di un altro spazio da indagare. Egli giunse, dopo un lungo e faticoso periodo di studio, a decretare che l’abbandono del “soggetto” permetteva alla macchia, alla linea, al colore di essere essi stessi soggetti nell’opera d’arte. Uscendo dai preconcetti del formalismo, giunse a creare un proprio autonomo codice espressivo fondato sulla manifestazione delle emozioni attraverso un universo astratto di segni e colori. Determinante fu anche la sua ricerca costante di corrispondenze tra la pittura e la musica: in mostra proponiamo alcuni acquerelli realizzati dal pittore negli anni 1912-13-14, i cui titoli fanno diretto riferimento a brani musicali, assai emblematici della conquistata libertà dalla figurazione, della libertà totale dalla codificazione della rappresentazione pittorica.
Si privilegia il colore. Si privilegia esattamente il rapporto emozionale con il colore. A questo proposito avete inserito un’opera di Klee, che rappresenta uno degli snodi più importanti. Ma tra gli antecedenti voi avete fissato anche Prampolini. Da Prampolini e da Klee dipartono due direttrici diverse della non-forma…
I nostri punti di partenza, scelti per rendere chiaro ai visitatori il tracciato di indagine di questa mostra, sono tre, e fanno riferimento specifico alle tre direzioni fondamentali seguite dal superamento del concetto tradizionale di forma: il segno, il colore, la materia. Per quanto riguarda il segno, abbiamo scelto Kandinskij. Per il colore, invece, la scelta è ricaduta su Paul Klee, che ne scoprì l’autonomia espressiva durante il suo celebre viaggio in Tunisia del 1914: proponiamo un’opera di quell’anno, particolarmente significativa, l’“Hommage à Picasso”, splendido tributo al cubismo analitico. Prampolini è stato scelto per rappresentare la via della materia. Egli stesso aveva affermato: “La materia contiene in sé tutto il potenziale espressivo che l’artista ricerca”. Il lavoro proposto, anch’esso datato 1914, dal titolo “Béguinage”, è un’opera-chiave della sua produzione, che pose le basi dell’arte polimaterica.