Anno millenovecentosettantotto. Dal finestrino di un treno in corsa, un uomo di mezza età lascia che lo sguardo indugi su di un grappolo di tetti appesi sull’argine del Po. Dal ponte della ferrovia, quel fiume maestoso che scorre fra gli alberi piegando ad ansa contro il paesino, gli suscita un’emozione strana, mista alla nostalgia per il ricordo di alcuni paesaggi della sua terra natale: la Polonia. Nacque così, da un incontro fortuito, lo stretto rapporto che per quattro anni legò Gabriel Stanislas Morvay, pittore errante nell’Europa del Dopoguerra, ad un piccolo centro della provincia cremonese, Casalmaggiore. Affascinato dai colori della pianura padana, fa del borgo la propria musa; le sue tele si riempiono di interpretazioni personali e raffinate degli infiniti scorci che riesce a scovare nel paesaggio casalese: le vie, il mercato, i bar, i canali, tutto diviene soggetto amabile per il suo sentire irruente ed entusiasta al tempo stesso, fatto di pennellate cariche e di colori accesi ma in grado di dissolversi lenti in toni sfumati e pieni di poesia.
Ma chi era quest’uomo, irrequieto e vagabondo, talmente slegato da qualsiasi sentimento di appartenenza ad un luogo da decidere dove vivere in base ad un’emozione, capace di scendere alla stazione di un paese sconosciuto e diventarne il cantore? Gabriel Stanislas Morvay nasce a Tarnow, in Polonia, nel 1934, periodo tumultuoso e poco felice per quanto riguarda la situazione politica. La sua infanzia è segnata dall’invasione della sua terra, prima da parte di Hitler e poi, nel 1945, dall’Unione Sovietica. Il padre, insegnante di disegno a Varsavia e direttore dei Musei del Lwow di Tarnow, contribuisce certamente a dargli i primi rudimenti, per poi iscriverlo alla scuola di Belle Arti di Varsavia, dove Gabriel sceglie di dedicarsi alla pittura. Ma nell’epoca del realismo socialista, gli artisti non avevano grandi possibilità di espressione; gli studenti delle Accademie dipingevano grandi ritratti di Lenin e di Stalin, l’unica strada percorribile era allinearsi alla pittura ufficiale del regime.
La fuga e l’esilio. In questo clima di chiusura ed oppressione, l’Europa democratica rappresentava l’avanguardia, la possibilità di creare in libertà, la cultura, la novità; per questo, al giovane Morvay non sembra vera l’occasione che gli si presenta durante un viaggio a Parigi organizzato con i professori dell’Accademia di Varsavia per scappare dal suo gruppo vigilato iniziando, così, la sua vita da esule. A Parigi, Morvay arriva con un unico bagaglio: l’ottimismo che gli deriva dalla sicurezza del suo talento e da una grande cultura. Vive in una stanzetta a Saint-German e frequenta le conversazioni dei caffè dei dintorni dell’école des Beaux-Arts. In questa “mecca artistica” conosce il pittore spagnolo Antoni Angle, con il quale si sente accomunato dal medesimo “proposito di fare pittura” in una ricerca febbrile di libertà espressiva. La sua opera è, in questi anni, decisamente astratta: Morvay aderisce pienamente alla corrente dell’Informale, raggiungendo le tre condizioni dettate da Georges Mathieu per rendere possibile la rivelazione: velocità di esecuzione, rifiuto di premeditazione e gesto estatico. Dopo aver fondato con Angle il “Gruppo Gallot”, che nelle sue manifestazioni di “pittura d’azione pubblica” anticipa il concetto di happening tanto caro ai concettuali, a partire dal 1963 inizia un lento processo di ritorno alla figurazione che, partendo dalla sua pennellata di forza espressionista, si può tradurre nell’idea dell’apparizione di un mondo nuovo.
L’arrivo in Italia. Durante gli anni Settanta, Morvay compie numerosi viaggi in Italia, soggiornando per brevi periodi a Camogli, in Liguria, e a Roma. Nella città eterna frequenta, grazie all’amico e protettore Alberto Pagliari, i salotti buoni, preziosi luoghi di incontro con il cuore pulsante della cultura fervente, da Pasolini a Moravia, da Fellini ad Antonioni, da Schifano a Burri. Nel periodo romano, la pittura dell’artista polacco è un’esplosione di gestualità, di disegno energico e materico, rispondendo alle esigenze del momento e al continuo alternarsi di sentimenti di quiete e di tempesta. E, finalmente, arriviamo all’anno millenovecentosettantotto. Per riposare un po’. Nella quiete della grande pianura, segnata dal lento scorrere del Po e dal ritmo naturale di una vita rurale e fatta di terra, la pittura di Morvay si fa molto più lirica. Tenere lo sguardo ampio, la sensibilità sveglia e la mente acuminata, sono i suoi obiettivi. Guardandolo dipingere, si capisce che l’oggetto iniziale del quadro è un pretesto. Un bisogno iniziale da cui presto scrollarsi per raggiungere l’equilibrio dell’insieme, per individuare il tutto. Così ne descrive la tecnica pittorica Franco Bolsi: “Lo stile può essere definito sbrigativamente impressionista, come fece Salvador Dalí, che ebbe l’occasione di conoscerlo e apprezzarne l’opera. Super-impressionismo è invece la definizione coniata dallo stesso pittore per qualificare un percorso di ricerca fatto di negazioni e di vigorose dichiarazioni di poetica: dalla formazione classica tradizionale dell’Accademia di Varsavia, ai corsi dell’Accademia di Art Abstrat de Puteaux parigina, fino all’informale… Il suo Po è un’insenatura protetta da un trionfo di verde, il colore più amato, che è sottobosco e piante di alto fusto”. La pittura è per lui un pianto purificatore, capace di compensare, almeno in parte, l’inquietudine che non lo abbandona mai del tutto.
Gli ultimi anni. Nel 1982 Morvay scompare da Casalmaggiore. Nessuno sa dove sia andato, se si sia fermato in Italia o sia tornato in Francia o in Spagna. Quattro anni più tardi se ne ritrova notizia a Sabadell, cittadina spagnola vicino a Barcellona, a casa Balsach, dimora dell’amico di gioventù Angle. Qui sviluppa la sua ultima stagione, creando la serie di interni e scene di strada caratterizzate da un espressionismo radicale. Dipinge una quantità notevole di opere, caratterizzate in generale dall’apparizione della figura e del gruppo. L’atmosfera è quella dei quartieri bassi, dei bordelli, piena di pericoli e di personaggi in agguato. Gravemente ammalato di tumore, si andrà spegnendo lentamente, accudito dal fedele compagno pittore. Figlio della grande crisi che sconvolse l’Europa e che arrivò al culmine con lo scoppio della seconda guerra mondiale, Gabriel Stanislas Morvay ha costruito la sua esistenza come una continua fuga da stabili punti di riferimento, nella sofferta convinzione che concetti come patria o senso di appartenenza fossero un inutile vincolo. Alla fine, il suo stile, costruito a forza di rotture, coincise con la sua vita.
Gabriel Stanislas Morvay
Gabriel Stanislas Morvay fuggì dalla Polonia e vagò a lungo per l’Europa, conoscendo Dalí, Burri e Pasolini. Trovò infine la pace in un piccolo borgo della Pianura padana. Una mostra ne celebra la vicenda artistica ed umana