Pubblichiamo un ampio stralcio del saggio introduttivo del catalogo della mostra MongArte, racconti plurimi del Riciclaggio. Gabriella Benedini, a cura di Marisa Zattini.
La nostra mente è trasformativa e guarda sempre oltre l’orizzonte della veglia. Pensiamo agli angeli e ai demoni che hanno abitato il mondo della nostra infanzia, o il mondo della notte. Pensiamo agli incantamenti del cielo e del mare, della sabbia e dei reperti che le maree eternamente restituiscono, metamorfizzati. Pensiamo alle nuvole del cielo, alle forme fantastiche e alle nostre immaginarie fantasticherie. Pensiamo alla musica, ai suoni melodiosi e lontani che, nel silenzio, riecheggiano in noi. Pensiamo alla magia e all’incantamento dell’arte per il nostro sguardo. Tutto questo lascia trapelare l’aura delle installazioni di Gabriella Benedini. Sono opere che esorcizzano il silenzio, o meglio la paura della morte e dell’eterno silenzio, in risonanza di armonie universali. Il paradigma vita/morte: ma cos’è la morte? “… la morte è sottrazione verso il mistero quanto la vita è ciò che l’una e l’altra pronunziano, nell’ammissione d’altro: tutto l’universo possibile scartato dal gesto di quel pronunciamento” (Adriana Pagnoni, in La morte orfana). Ad affermare che la morte è la coscienza della vita in quanto è “parte della trama del suo mondo”. Le sculture oggettuali di Gabriella Benedini hanno superato la soglia della morte. Si sono come autorigenerate e tra(s)ducono (tra(s)durre, cioè mutare il senso.
La definizione è del semiologo Paolo Fabbri, che in Transcritture: il dicibile e il visibile scrive: “… l’intraducibile presente è un’abbondante riserva di tra(s)duzioni prossime e venture”) il presente; sono chiamate ineludibilmente a far rivivere le loro “parti” in una seconda eterna vita, quella dell’arte. Una seconda vita degli oggetti, come potrebbe essere definita quella dei materiali di scarto che la nostra artista ha prescelto e ricucito nel linguaggio unificante della pittura e della scultura, creando opere che sanno di collage alchemico. Una trasmutazione, questa, esemplare dove nulla manca, nel segno del tempo, per arpe-barche immaginifiche. Gli “scarti” vivono nel magma indifferenziato di ciò che l’uomo ha rigettato. La mano dell’artista che li sceglie – che li “accoglie” – li eleva togliendoli dal caos e dall’abbandono. Così frammenti di scrittura, lacerti di poesia, elementi ferrosi, legni consunti, piccoli relitti del passato si ricompongono ad evocare, ritmicamente, un “altrove” archetipale, in un messaggio artistico del presente. E’ questa la rivitalizzazione che opera Gabriella Benedini attraverso il suo pensiero e il suo “fare”. Architetture e forme “in levare”, occupano una spazialità in leggerezza, nel rispetto di quell’“intervallo perduto” di cui ha scritto recentemente Gillo Dorfles. Opere rarefatte – dove anche la scrittura si incarna – che potremmo definire “diastematiche”, sempre prendendo a prestito alcune “parole chiave” di Dorfles. “Perdere l’intervallo (e, soprattutto, la coscienza dell’intervallo) significa ottundere la nostra sensibilità temporale e accostarsi a una situazione di annichilimento della propria cronoestesia: della propria sensibilità per il passare del tempo e per la discontinuità del suo procedere”.
“La compostezza dell’arte è l’incontro fra le pulsioni della vita e le pulsioni autodistruttive”, ha scritto Adriana Pagnoni. Il tipo di ascolto “sensoriale” che una mostra d’arte richiede – e questa in particolare – ha necessità vitale di una “pausa”, di una riflessione speculativa, di un momento di estraniamento dal contesto quotidiano, di una “pausa” per un approccio consapevole. Oltre il “pensiero visivo” entra in gioco il nostro irrazionale e solo allora si può giungere ad un “assaporamento estetico”. Astrazione di segni e di simboli; “bellezze del brutto” recuperate, come tessere a ricomporre allegorie di viaggi che appartengono al passato o a segnare traiettorie astrali per viaggi futuri. Sono ricordi frutto di una rielaborazione della memoria che tutto reinterpreta, operando per sedimentazioni e decantazioni. Rottami rivitalizzati dall’usura; tracce sintomatiche necessarie per il tempo dell’attesa, per esorcizzare i disagi del nostro vivere. Il “fare” di Gabriella Benedini appartiene al pensiero antropologico e svela il senso di un cerimoniale apotropaico. Sono opere che sanno di reliquari necessari per rinominare le cose, in nome dello spirito delle cose, per un nuovo codice linguistico che mutua nuovi alfabeti. Vele, Arpe, Canoe, Ritorni, Sestanti, Glaciazioni, Astrolabi, Segni d’aria e Comete… stralci di titoli che sono tavole bibliche dell’anima.
“Vele” che rivivono, oggi, nei luoghi di questo raccolto borgo cittadino, a Sogliano al Rubicone, in Romagna, per un itinerario fantastico che si dipana fra lettera e lettera, colore e colore, riflesso e suggestione. Così l’artista si è lasciata coinvolgere da queste atmosfere di provincia, al di fuori dei rumori incessanti e frenetici delle grandi città, oltre quel “tuttopieno” narcotizzante. E allora siamo pronti a salpare sulle ali dell’emozione per giungere a nuove terre, per “vedere” con nuovi occhi, come diceva Proust, oltre i quattro punti cardinali, navigatori dell’universo…
Gabriella Benedini
Recuperando materiali dall’usura e dall’oblio, la scultrice cremonese ricompone allegorie di viaggi passati e traiettorie astrali di viaggi futuri. In nome dello spirito profondo delle cose.