di Lionello Puppi
Scagli la prima pietra – come si suol dire – chi, tra quanti s’applicano e praticano le discipline storiche, non abbia avuto la tentazione, una volta almeno, d’inventarsi, e magari di
“fabbricare”, il documento capace di trasformare in dato di fatto incontestabile una paziente ma inappagante costruzione indiziaria: di chiudere definitivamente un’estenuante indagine. E non alludo, dunque, al collezionista d’autografi, il cui “insaciabile desiderio”, per esprimerci con Isabella d’Este, è speculare al mercato che ispira i fenomeni della produzione della copia fraudolenta e delle contraffazioni e, insomma, dell’attività di falsari pronti a confezionare di tutto, sin alle lettere scritte di proprio pugno da Pitagora, Cesare, Cleopatra, Nerone e Maria Maddalena per la smania ormai incontrollata d’appassionati dello stampo del povero Michel Charles, dell’Institut de France.
In realtà, un conto dovrebbe essere la tentazione, destinata a spegnersi, con tutte le fantasticherie che possa aver suscitato, in un’intimità segreta o a volatilizzarsi in giochi salottieri, quando non vada a nutrire l’“irresponsabilità” del racconto creativo, e altro conto il rigore filologico della ricerca storica (anche quando non si neghi la comunicazione attraverso i meccanismi della narrazione letteraria con le sue debite funzioni alla Propp e con i suoi trabocchetti alla Wu Ming) che si fonda sulla certezza del documento (Lorenzo Valla docet) e argina lo straripamento nella divagazione ideologica. Ma son percorsi irrevocabilmente paralleli ovvero tragitti che possono intersecarsi e incrociarsi, deflagrando?
Per Giuseppe Marino Urbani de Gheltof far emergere un documento dai labirinti di un archivio o costruirlo di sana pianta, era la stessa cosa, ma non è la seconda malversazione che pagò con l’emarginazione sociale e con la follia che l’avrebbe tratto a morte poco più che cinquantenne nel “Regio Manicomio criminale di Montelupo Fiorentino” il 27 febbraio 1908: gli gravava addosso, infatti, un’imputazione di “furti, truffe, ecc.”, e le docce fredde cui per un anno era stato sottoposto, alternate a getti d’acqua calda, nelle vasche idroterapiche, gli avevano provocato una micidiale “pleuro-bronco-polmonite” che il fisico, già provato da crisi d’epilessia e da un biennio di vagabondaggi insensati in giro per la Toscana (vi aveva raggiunto nel marzo del 1904 il fratello Giovanni che risiedeva a Pistoia con l’incarico di Commissario regio presso quell’Ospedale; ma era stata accoglienza fredda, diffidente e, ben presto, presa di distanza), non aveva sopportato.
Notti trascorse all’addiaccio per non potersi permettere neppur il miserabile conforto di una locandaccia da quattro soldi; un paio di panini comprati con gli spiccioli ottenuti vendendo un ritrattino in miniatura della madre che pur gli era immensamente caro; spostamenti fatti perlopiù, come usa dire, col caval di San Francesco per decine di chilometri su strade appartate e polverose. Aveva accumulato, e veniva accumulando, debiti che, dopo aver messo a pegno persin l’orologio, non è più in grado di sanare. Supplica il fratello Francesco, che continua a vivere nella casa familiare di Venezia, di trovargli e spedirgli i “libretti di note” che vi aveva lasciato prima del trasferimento a Pistoia – e “specialmente quello giallo” che chissà quali appunti o trascrizioni conteneva -, ma soprattutto un “foglio autografo – autografo? – di Jacopo Tintoretto pittore che deve esistere tra le [sue] carte […] del Cinquecento che riguardano Candia e altro”, “unita alla copia che ne h[a] fatta in carta azzurrognola”.
Tra tante peripezie – che Raffaella Gava ha restituito in una tesi di laurea esemplare, tradotta poi in un denso saggio edito in Studi Veneziani -, non manca di visitare biblioteche ed archivi, trascorrendovi lunghe giornate. Ma, a portarvelo, è la passione per la ricerca storica che, sin dall’adolescenza, il padre Domenico, ch’era stato vicedirettore del Museo Correr e numismatico di indiscussa autorità, gli aveva instillato, e si era venuta consolidando in pubblicazioni scientifiche ed iniziative culturali da cui aveva tratto, ancorché chiacchierata, fama? O è altro, che ne rappresenta il rovescio ripugnante, l’incetta furtiva di carte manoscritte da smerciare per poter continuare il vagabondaggio senza meta nella resistenza vana “fino a che – lo scriveva al fratello Francesco il 6 ottobre 1906 – il cervello sia in ordine”?
E scoppia lo scandalo il cui rumore, per la notorietà del personaggio (l’autore delle pagine suggestive di Venezia “dall’alto”; lo studioso innovatore delle arti industriali; il promotore instancabile di cultura) rimbalza e risuona sulla stampa in ispecie toscana e veneta: con intonazione e dettagli diversi, ma concordi al nocciolo, La Difesa Religiosa e Sociale, la Gazzetta di Venezia, L’Adriatico riportano come, incauto (e, probabilmente, in stato confusionale), lo sventurato avesse tentato di contrabbandare, come materiale da lui stesso regolarmente acquistato sul mercato antiquario, al Bibliotecario della Nazionale di Firenze la refurtiva accumulata: gran malloppo e, però, messo insieme a caso, sottraendo quel che capitava sottomano nei momenti propizi di scarsa sorveglianza (un codice pergamenaceo col testamento di Lemmo Balducci dall’archivio dell’Ospedale di Santa Maria Nuova; manoscritti concernenti l’Ospedale di San Bonifazio e la famiglia Fassi; un altro antico codice di ricette mediche dall’archivio dell’Istituto di Studi Superiori).
Agevolmente smascherato e denunciato, l’Urbani vien arrestato; sottoposto a perizia psichiatrica, se ne accerta sì un “tale stato di infermità mentale da sottrarlo al perseguimento penale dei reati commessi”, ma anche una pericolosità sociale da richiederne la segregazione in un Istituto opportuno. E vien tradotto, appunto, nell’inferno dell’Ambrogiana di Montelupo, ricettacolo di pazzi furiosi, di criminali sanguinari, di assassini pluriomicidi, nell’attesa di un trasferimento all’Ospedale psichiatrico civile di Padova, troppo a lungo prolungata, però, dall’azione del Giudice Istruttore di Firenze che, rifiutando di riconoscerne l’incapacità di intendere e volere al momento delle ruberie compiute, pretendeva di trarlo a giudizio e condannarlo. Sul biglietto di partecipazione della morte, il fratello Giovanni indicherà, mentendo, Firenze come luogo del decesso senz’alcuna allusione al “triste incidente”, giacché, sebbene “purtroppo quel che fu non si cancella, il volere, ora, riabilitare la di lui memoria in forma troppo spiccata potrebbe essere interpretato male”. Meglio dimenticarlo dietro una pietosa bugia.
Nato a Padova il 18 agosto 1856, Giuseppe Marino Urbani de Gheltof s’era ben presto trasferito con la famiglia a Venezia, dove non aveva seguito corsi di studio regolari, ma, assumendo il padre ad esempio e con impegno quotidiano e quasi forsennato, era cresciuto da autodidatta. Se attesterà all’ignaro genitore la propria riconoscenza regalandogli la trascrizione della improbabile ricevuta, autografa di Giorgione, del pagamento di quattro quadroni con storie di Daniele, scovata tra le scartoffie di un innominato (e irreperibile) antiquario trafficante sulla riva del Vin (e il buon Domenico la girerà a Pompeo Molmenti che non esiterà a pubblicarla nel 1878), si rivelerà all’élite intellettuale lagunare non ancora ventenne con un’applaudita conferenza nell’Ateneo veneto sui viaggi di Antonio Soderini e con studi innovativi, e ancor oggi in parte utilizzabili, sull’industria della maiolica e porcellana nel Veneto, che culmineranno nel catalogo della grande esposizione romana sulla ceramica ed arti affini nel 1889.
Esattamente dieci anni prima aveva pubblicato un opuscolo su Tiepolo e la sua famiglia che, seguito un biennio appresso da un altro su Tiepolo in Spagna, aveva consacrato il successo del giovanissimo storico, e inaugurava la fortuna novecentesca del maestro veneziano anticipando le grandi monografie (1909 e 1910) del Molmenti e del Sack attraverso un accorto – e sarebbe da dir perverso – melange di documenti autentici e di carte fasulle ma così ben confezionate da trarre in inganno i due succitati studiosi, che assegnava a Giambattista la compagnia fedele di uno schiavetto negro e il conforto tenero, nei suoi ultimi anni spagnoli, di Cristina,
“muy hermosa” modella del pittore e suo amore senile, sullo sfondo di un’attività illustrata da un quaderno di conti tenuto da Giuseppe “come procuratore del nunc quondam signor Gio. Batta Tiepolo [suo] padre dal giorno 29 marzo 1762 sin tutto il 1769”.
Ch’è, poi, il solo allegato veritiero dell’incartamento assemblato: ma appare talmente avvinghiato alle carte mendaci da indurre Gino Fogolari, allorché denunciava la truffa (siam però nell’anno di grazia 1932!), a confonderlo con “tutta la lurida baggianata che da troppo tempo dura”, e a buttar via il bambino con l’acqua sporca. Ma quali mire poterono indurre l’Urbani a nutrire e contornare le notizie che traeva da una indagine paziente e faticosa di chimere stravaganti? Ché, spesso, le prime, già per sé valevano un contributo solido di conoscenze nuove che non abbisognava di giunte, di superfetazioni, di fronzoli. E dunque?
Una debolezza di giudizio, un timore di aver scovato poco e la volontà scellerata di accrescere ad ogni costo la mole esigua delle informazioni raccolte dalle fonti autentiche; il rifiuto protervo di lasciar casi irrisolti, enigmi sospesi? Oppure, il gusto irresistibile per il coup-de-théatre, la voglia di stupire dimostrando capacità quasi rabdomantiche di esplorazione degli archivi? O, viceversa, un poco di tutto questo in risposta a frustrazioni esistenziali e professionali che lo tormentavano ben più di quanto non lo gratificassero prestigiosi riconoscimenti pubblici e accademici? Alla fin dei conti, le qualità che aveva dimostrato debuttando come s’è veduto, gli avevano procacciato assai per tempo la direzione del Museo vetrario di Murano con l’annessa sua Scuola di Disegno, la segreteria del Circolo artistico di Venezia che gli consente d’aver gran parte nell’organizzazione di quell’Esposizione nazionale ch’è preludio della Biennale internazionale, l’elezione a membro dell’Ateneo Veneto e della Deputazione di Storia patria, la croce di cavaliere del Regno, incarichi prestigiosi.
Se, contemporaneamente, sforna (a sue spese e per il III Convegno Geografico Interregionale) un inventario della collezione del doge Marin Faliero nella quale sarebbero confluiti i tesori portati a Venezia da Marco Polo (La collezione del doge Marin Faliero e i tesori di Marco Polo, Venezia 1886: vi rimette la scoperta ad un libricino pubblicato dal padre Domenico nel 1860, che non si è mai trovato), oppure un mazzo di lettere del Goldoni (Lettere / Carlo Goldoni, Venezia 1880; Carlo Goldoni e Chioggia, Venezia 1883) o ancora un’epistola di Cristoforo Colombo alla Signoria serenissima (Lettera inedita di Cristoforo Colombo ai signori veneziani, Venezia 1881), che si tratti di falsi grossolani non se ne accorge nessuno (così come, l’abbiam veduto, vengon presi per buoni i senili affanni amorosi del Tiepolo e l’esistenza di un suo perduto ritratto dello schiavetto negro che avrebbe tenuto con sé): e, a prescindere da qualche dubbio del Berchet sullo scritto del navigatore genovese (1890), solo parecchi anni al di là della sua morte cominceranno ad affacciarsi dubbi fondati.
E sarà quando diventerà sospetta la frequente preoccupazione dell’Urbani di render incontrollabili i documenti più eclatanti, sostenendo di averli consultati e copiati in sedi non più raggiungibili (ora un rigattiere che, frattanto, aveva però cessato le attività; ora un privato che s’è trasferito chissà dove, ecc.) mentre, alla verifica, documenti segnalati nei pubblici archivi non vi risultavano affatto. Altre, in apparenza, son le ambasce che tormentano l’Urbani, e si tratta paradossalmente dell’insorgere di sospetti che non riguardano però la sua correttezza di ricercatore e di editore di documenti, ma la sua probità di amministratore del Circolo artistico; e diventano di pubblico dominio, come certi suoi traffici strani tra antiquari e Monte di Pietà, altra fonte di insopportabili pettegolezzi. Calunnie?
E’ probabile che l’instancabile promotore di iniziative, il fortunato ricercatore, il prodigo pubblicista dessero fastidio a qualche esponente del difficile e rissoso universo intellettuale e culturale veneziano fin-de-siècle che, non avvedendosi della sua vera, segreta e terribile vulnerabilità, potrebbe aver pensato bene di ricorrere all’arma della mormorazione, della insinuazione, della diffamazione su manifestazioni palesi di debolezza della sua personalità. Ne sapevan qualcosa, del resto, studiosi quali Cesare Augusto Levi e Gustav Ludwig, autoesiliato a Roma l’uno con tanta voglia di fare “una volata al Creatore”, e condannato l’altro all’isolamento e alla solitudine.
L’Urbani, con comportamenti imprevedibili, strani, autolesionistici sembra sollecitare le persecuzioni quasi ad espiare una “colpa” di cui oscuramente sentiva d’essersi macchiato, pur ignorandone apparentemente la natura. Così, decide di andarsene, ma non sa dove, dopo aver presentato le dimissioni, nel 1892, da direttore del Museo vetrario muranese e Scuola annessa per protesta (“chi scrive al Comun, serve a nessun”, avrebbe commentato il Levi) a fronte dell’ennesimo sgarbo (l’allontanamento dell’unico custode) fattogli dal sindaco dell’isola, e dopo aver lasciato ogni altro pubblico incarico, compresa la consulenza per il riordinamento della pinacoteca legata dal marchese Federico Marchesini al Patriarcato, favoritagli proprio dal Levi, il quale ne aveva garantito le qualità di “profondo conoscitore di oggetti d’arte e di libri” presso il cardinale Giuseppe Sarto, futuro pontefice di Santa Romana Chiesa e oggi suo santo venerato e invocato: che gli manifesterà stima e affetto.
Patita l’umiliazione del rifiuto della sua candidatura alla direzione del Museo civico di Padova perché privo dei titoli di studio richiesti (ma l’aveva cercata; e ben sapeva che quei titoli erano necessari), si era impegolato nel mercato antiquario e nell’editoria traendone solo debiti, aggravati dalle spese, cui generosamente concorre, per una difficile operazione chirurgica subita dal fratello Francesco. La morte della madre gli aveva assestato il colpo di grazia, e comincia quel vagabondaggio privo di ritorno che lo porterà dapprima a Treviso (dove sostiene di “lavorare da mattina a sera”: ma a cosa?Frequenta biblioteche e archivi per trafugar vecchie carte o per confezionarne copie fraudolente da vendere a rigattieri o a sprovveduti collezionisti?) e, infine, all’ultimo traguardo funesto di Pistoia.
E’ ormai angustiato e oppresso da incubi schifosi e sinistri (“la notte passa per me orribile; i ragni mi seguono nei sogni”); s’abbandona a pianti disperati; si convince di non aver più altro da fare che pagare i debiti accumulati e, poi, “sarà finita”: ma stupisce che mai accenni – subissando il fratello Francesco di messaggi nei quali, pur lagnandosi per l’iniquità della fortuna avversa, sembra aprir l’animo al congiunto senza nulla celare, né manca di incolparsi di mille debolezze – a quell’attività di falsario su cui aveva, in parte almeno, costruito la reputazione di irreprensibile studioso, di dotto ed enciclopedico erudito, che, all’indomani della morte atroce e indecente, qualcuno pur ancora rivendicherà per riscattarne la memoria.
Si era consegnato come ladro infatti, non come falsario di documenti, al bibliotecario fiorentino. Nello storico Giuseppe Marino Urbani de Gheltof, allora, trovare e inventare si confondono nell’ambiguità invisibile di un invenire omologante; in una sorta di innocenza soggettiva che annulla la radicale opposizione oggettiva tra l’obbedienza ad una disciplina e alle sue regole e l’irrisione spregiudicata e criminosa di esse, foriera di intollerabili e assurde perversità? E’ l’irreprensibile dottor Jekyll che perpetra, ignorandole, le malefatte del diabolico mister Hyde, inverando l’uno e l’altro nello studioso scrupoloso e accurato che, con raffinata eleganza, ci restituisce – ad esempio – la vicenda complicata di palazzo Trevisan a Murano convocando Daniele Barbaro e il Veronese, Palladio e Giannantonio Rusconi e nell’audace e beffardo mistificatore che trasferisce l’opulento tesoro accumulato da Marco Polo nelle sue peregrinazioni asiatiche all’improbabile collezione di un doge che sarà decapitato per tradimento?
E’ paradossale che l’Urbani de Gheltof abbia pagato solo alla malasorte, all’aver vissuto maldestramente le asprezze e le miserie di una congiuntura difficile, alla debolezza del carattere e alle frustrazioni dell’autodidatta un prezzo che sarebbe stato altissimo ed eccessivo anche se fosse consistito – e non fu -nella punizione per il crimine effettivamente consumato, ancorché, invero, l’entità continui a restarcene imponderabile. All’invettiva di Gino Fogolari che spronava a tralasciare nello studio della storia tutti gli scritti che l’Urbani gli aveva dedicato, come “sequela di ciurmerie” spettanti ad un irriducibile falsario (alla cui schiera anche un Otto Kurz lo consegna), v’è infatti chi (Giambattista Cervellini; Elio Zorzi; Raffaella Gava) oppone un atteggiamento più cauto, flessibile: non è tutta acqua sporca.
Appunto, ma non solo, aggiungerei: giacché un’ultima domanda resta, non meno ineludibile che inquietante, visto che tutto rovescia ciò che siamo venuti sin qua annotando. Quanti, tra i documenti pubblicati dal “falsario” e irrimediabilmente condannati – prima ancora che per la loro assurdità rispetto a convincimenti bene assestati o per la loro apparente goffaggine di scrittura – per l’irreperibilità – oggi; per adesso -dell’ubicazione dei testi originali, conditio sine qua non del confronto legittimante, potrebbero uscir fuori – domani -, luminosi e abbaglianti nella loro cristallina e lampante autenticità, dalla zona d’ombra che, forse, li ottenebra e imprigiona?
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[PDF] Il dottor Jekill e lo schiavo di Tiepolo
STILE ARTE 2009