Riproponiamo l’intervista a Horacio Garcia Rossi (1929-2012) nella quale il grande artista argentino esaminava il proprio percorso
Lei è nato a Buenos Aires, e i suoi primi passi nel mondo dell’arte si sono compiuti in Argentina, dove oltre ad avere insegnato alla Scuola Nazionale di Belle arti, è stato protagonista di un’intensa attività espositiva. Come maturò poi l’esigenza di trasferirsi in Europa?
Sono nato a Buenos Aires il 29 luglio del ’29. Durante gli anni in cui ho frequentato l’Accademia di Belle Arti strinsi una grande amicizia con altri pittori: Julio Le Parc, Hugo Demarco, Francisco Sobrino, con i quali ho condiviso molti interessi ed aspirazioni. Tutti insieme, nel 1959, decidemmo di recarci a Parigi per quello che doveva essere un periodo di studio. Allora la città conservava ancora il fascino di grande capitale dell’arte, e noi ne sentivamo forte il richiamo… Non l’abbiamo più lasciata.
E a Parigi nel 1960 è stato fra i fondatori del Centre de Recherches d’Arts Visuel, e, subito dopo, del Grav (Groupe de Recherches d’Art Visuel)…
Accomunati dal desiderio di abbandonare una visione tradizionalista dell’arte, troppo legata d un accademismo che ormai non rispondeva più alle esigenze espressive che condividevamo, noi quattro, insieme ad altri, decidemmo di fondare questo Gruppo che si prefiggeva di intendere l’arte in maniera quasi scientifica, limitandosi a trattare aspetti puramente formali e visuali, e di considerare la pratica artistica come una specie di attività in comune, un lavoro d’équipe, dove ognuno sviluppa però liberamente, in piena autonomia, la propria personale inclinazione, portando avanti una ricerca soggettiva che confluisse però in una nuova visione globale di un’arte fondata teoricamente come astratta, chiara, sintetica, programmatica.
Le esperienze condivise con il Gruppo traghettano il suo interesse verso la luce come mezzo d’espressione plastica e verso il rapporto colore-luce come problematica unificata, il tutto mediato da un’estrema raffinatezza degli esiti, sempre molto suggestivi. Come si è svolta questa evoluzione?
Come dicevo, durante gli otto anni in cui il Gruppo si trovò ad operare (tra il 1960 e il 1968), indipendentemente dagli eventi espositivi che venivano organizzati collettivamente, ognuno di noi sviluppò il proprio personale percorso, dedicandosi agli aspetti che maggiormente incontravano il suo interesse. Nel mio caso io sono sempre stato fortemente affascinato dalle problematiche legate alla luce. In questo periodo cominciai dunque a lavorare intensamente intorno alla possibilità di utilizzare la luce come mezzo d’espressione plastica: volevo portare la luce all’interno dell’opera. Durante questi anni realizzai esperienze su “rilievi a luce instabile”, “scatole luminose”, “strutture a luce instabile”. Si trattava di opere a tre dimensioni, che includevano il movimento. Da qui iniziò anche una ricerca lunga, faticosa che, piano piano, mi ha portato ad elaborare la teoria dell’unificazione luce-colore, che infine, intorno al 1978, è sfociata nel fondere, in opere bidimensionali, la luce ed il colore in una unità indissolubile. In queste ricerche il colore non si manifesta né come elemento decorativo in sé, né come varietà di colori abbinati, ma come un conglomerato destinato a creare una vera e propria nuova struttura di visualizzazione: la luce-colore.
Parallelamente si è dedicato ad opere che prevedevano il coinvolgimento attivo del pubblico. Qual era l’obiettivo di questo tipo di interrelazione?
Prendendo le distanze da un’arte tradizionale, accademica, ‘classica’, noi del Grav sentivamo anche l’esigenza di creare un nuovo tipo di spettatore, che non fosse quello abituato a frequentare l’ambiente artistico ortodosso, le gallerie. La nostra idea era quella di rivolgerci all’uomo comune, alla gente di strada, e infatti molte delle manifestazioni espositive che organizzammo prevedevano proprio delle performance all’aperto, nei luoghi di maggior passaggio della città. Il più grande evento che organizzammo si intitolava proprio Una giornata in strada. Le mie opere, come Cilindri in rotazione, si prestavano ad essere manipolate dal pubblico, libero di maneggiarne la struttura, il colore…
Ci vuole parlare del suo ‘alfabeto ambiguo’, che sta alla base delle prime esperienze con l’identificazione visuale della scrittura, su cui si fondano i lavori denominati Mouvement?
In un primo accostamento per identificare la parola alla struttura formale ed al suo significato linguistico attraverso una comunicazione visiva, nel 1964-1965 ho creato un’opera a luce instabile intitolata Mouvement: su uno schermo luminoso si proietta la parola “MOUVEMENT” ripetuta 10 volte, le lettere sono in movimento e si sovrappongono fra di loro creando una visione ambigua, continuamente instabile. Verso il 1969 ho realizzato un alfabeto ambiguo tridimensionale; partendo dalla struttura stessa della lettera, realizzata in plexiglas trasparente, ho cercato di dare un movimento che corrispondesse sia al suo volume che alla sua personalità come lettera in se stessa. Ho realizzato anche delle opere nelle quali utilizzo come elemento-base la grafia delle parole che identificano, nel linguaggio usuale, gli elementi plastici e pittorici che caratterizzano la mia ricerca figurativa: come quadrato, cerchio, triangolo, riflesso, colore, linea, volume piccolo, grande, spazio, luce, niente, cercando di proporre un’immagine visuale dove la stessa si identifica, talvolta contraddicendosi, con la parola ed il suo significato.
Questa parte della sua ricerca mostra il suo interesse verso la semiotica e la possibilità di dare appunto un valore visivo ai significati delle parole, stesso procedimento che lei ha utilizzato per creare i ritratti di alcuni artisti.
Sono sempre stato uno spirito inquieto, con moltissimi interessi. Fra questi ho sempre nutrito una grande passione per il cinema, in particolare quello italiano, che, quando vivevo a Buenos Aires, avevo avuto modo di conoscere approfonditamente grazie alle proiezioni di una sala specializzata. Da Fellini a Lattuada, da De Sica a Risi, ho amato moltissimo tutti i grandi registi italiani, e a un certo punto decisi di rendere loro omaggio creando dei “ritratti” dei nomi di questi maestri che fossero in qualche modo collegati al loro cinema, proseguendo su quella linea di ricerca dei rapporti tra la parola, la sua forma ed il suo significato. Poi sono nati i ritratti di artisti-pittori, collegati alla loro opera. A un certo punto ho anche inventato un questionario psico-selettivo da sottoporre ad alcuni soggetti per poterne realizzare il ritratto per mezzo delle lettere che compongono il loro nome, utilizzando i dati psicologici del personaggio e le sue preferenze riguardo a forme, colori, ecc. Questa ricerca è assai più rivolta all’aspetto visuale, perciò la ricerca plastica è predominante; la mia intenzione però, nel medesimo tempo, è che il ritratto di un nome sia il più possibile attinente al personaggio, quasi come se ogni ritratto fosse per metà una mia creazione e per metà opera dello stesso soggetto.
Veniamo ai momenti più recenti della sua attività. Quali sono le principali caratteristiche dei suoi ultimi lavori?
La mia ricerca non è naturalmente mai conclusa. Anche negli ultimi anni ho continuato a dedicarmi al rapporto luce-colore; in particolare recentemente ho concepito una serie di opere che ho intitolato Caos programmato, attraverso le quali mi sforzo di mostrare attraverso l’ordine programmatico di un’arte razionale, astratta e geometrica, la situazione di caos che imperversa nel panorama artistico e sociale attuale.
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Prendendo le distanze da un’arte tradizionale, accademica, ‘classica’, noi del Grav sentivamo anche l’esigenza di creare un nuovo tipo di spettatore, che non fosse quello abituato a frequentare l’ambiente artistico ortodosso, le gallerie. La nostra idea era quella di rivolgerci all’uomo comune, alla gente di strada, e infatti molte delle manifestazioni espositive che organizzammo prevedevano proprio delle performance all’aperto, nei luoghi di maggior passaggio della città