Il filo che conduce da Piero della Francesca a Modigliani e oltre. Divertissement attorno al cardine della rappresentazione

Dall'assoluto valore delle formule pierfrancescane si diparte un filo - che vibra e si attorciglia, come il filo di fumo del tabacco - che percorre tutta l'arte occidentale. Il tentativo di rappresentare la realtà non dimenticando mai il lato nascosto, nell'unione tra il volto e la schiena, nel superamento della bidimensionalità della pittura attraverso la pittura stessa

di Roberto Manescalchi

Ogni storia che si rispetti ha un buon filo conduttore e a volte più di uno e con il loro ausilio può essere raccontata più o meno bene.
Nel nostro caso potremmo cominciare dalle tartarughe ninja tanto care al compianto Philippe Daverio ed allora eccole: Leonardo, Michelangelo, Donatello e Raffaello. 

Mancherebbero quantomeno Piero della Francesca e Brunelleschi, ma Kevin Eastman e Peter Laird, gli ideatori della serie, sono statunitensi e i ninja furono spie, mercenari e assassini del medioevo giapponese. Diremmo che non si possa pretendere più di tanto dal connubio ed evidentemente siamo ben lontani dal filo di Arianna. Con le tartarughe Teseo non sarebbe certo potuto uscire dal labirinto ed a pensarci bene a noi, senza cravatta, il noto ‘papillon’ stava, bontà sua, anche un pochino sulle scatole! Bacco, Tabacco e Venere? Neanche il mio carissimo e colto amico Paolo Bini, direttore di Spirito Italiano, credo che sarebbe in grado di fare una disamina attraverso il bere nella storia dell’arte. Di cosa, quale vino, si ubriacasse Caravaggio e che qualità avesse, probabilmente infima, la fata verde di Degas (qui sotto) o di Modigliani non è dato di sapere.

Il tabacco? Di questo filo potremmo, forse, dissertare che siamo nati tra le piante di Kentuky. C’è chi viene concepito sotto i cavoli e chi all’ombra delle foglie del tabacco, ma abbiamo troppo rispetto per l’intimità di nostra madre, almeno oggi, per poterne pubblicamente disquisire e poi l’erba delle meraviglie fu coltivata in Italia a partire dal 1576 ad opera del vescovo Niccolò Tornabuoni che ebbe in dono i semi direttamente dalla corte francese di Caterina dei Medici che li aveva avuti da tale Jean Nicot (nicotina). Troppa arte, stante la data, ne resterebbe fuori. Resterebbe Venere, ma il tema ha tante di quelle variabili e varianti che ne rendono impossibile in poche righe una trattazione compiuta.  Ad onor del vero un tentativo in questo senso lo abbiamo già espletato: “Per un’iconografia del culo. Brevissima storia delle natiche nell’arte. Tra peso e levità”

https://stilearte.it/var/www/vhosts/stilearte.ithttpdocs/?s=Manescalchi+culo

Trattare del solo culo è tuttavia riduttivo come è facile comprendere. Il nostro mentore, come molti sanno, è Aby Warburg

il teorizzatore della storia comparata delle idee. Vorremmo davvero poter attingere ai sui studi dedicati alle emigrazioni e sopravvivenze delle antiche immagini di divinità nella cultura europea moderna, ma ci sovviene, basici e ignoranti quali siamo, solo del perché il Toscano si debba fumare ammezzato. Corre voce che in un attimo di trance una non meglio conosciuta ‘badessa’ abbia arrotolato a coscia, ben prima di qualche fascinosa creola, per il vescovo di cui sopra, che si favoleggia fosse il suo amante, una foglia marcia di tabacco. Si dice altresì che abbia dato allo strano rotolo una forma troncoconica e che le due estremità avessero avuto la forma e consistenza dei suoi capezzoli in erezione. Questo strano connubio tra tabacco e Venere spiegherebbe il perché Verdi, Mascagni, Puccini, ma anche Fattori e Modigliani tenessero costantemente in bocca mezzo toscano da ciucciare.

I maremmani incendiano un capezzolo e fumano il sigaro per intero tirando dall’altro? Sono rozzi, butteri, barbari e blasfemi! Ancora in cerca del filo potremmo associare al nome di pochi grandi tutto il resto degli artefici, ma a volte ricondurre un minore ad un grande è estremamente pericoloso e problematico che ci sono grandi che volano troppo più in alto per poter essere visti e compresi da tanti minori. Minori in tutti i sensi che a loro non possono in alcun modo essere ricondotti. Uno dei fili conduttori ci sovviene che potrebbe essere allora la disputa sul primato delle arti e significativamente tra pittura e scultura. La disputa attraversa i secoli e forse inizia con le statuaria classica che mostra la scultura in grado della definizione piena dei due volti del Dio Giano (ecco di nuovo Warburg). Questo articolo diventerebbe lungo come la fine del credo… meglio ricordare i veltri di Sigismondo dipinti da Piero nella cappella delle reliquie del tempio di Leon Battista di cui possiamo ammirare in contemporanea il fianco destro e sinistro la luce del giorno il veltro bianco e quella della notte il veltro nero ed ovviamente per averne idea compiuta non serve il tutto tondo né la fatica della scultura che pure produce il famosissimo connubio tra estasi e tormento.

L’idea pierfrancescana di partire dal metodo di rappresentazione e non dall’oggetto e o cosa rappresentata per la raffigurazione del reale è forse l’idea più originale e rivoluzionaria dell’età moderna. Ai veltri di Sigismondo fanno seguito il cavallo bianco ed il cavallo nero – ci sono anche il cavallo di fianco ed i palafrenieri di fronte e di spalle.

Ancora la luce ed il buio che ritornano, non casualmente, sempre ad opera del gigante, in San Francesco ad Arezzo. Lo stallone nero anticipa anche Picasso e Guernica.

risultato forse raggiunto autonomamente dal catalano ed in probabile assenza di conoscenza, che simboleggia il dualismo tra la ragione ed il suo sonno che già Goya aveva mirabilmente esplorato nel bianco e nero dei suoi capricci in una introspezione dell’anima che, oltre la classicità della forma scolpita, si era addentrata nella compiutezza della scultura dell’animo umano angelico e bestiale al contempo.

(“…perché se tu rapresenterai a l’occhio una bellezza umana composta deproportionalità de belle membra, esse bellezze non sono si mortali, né sì presto si struggono, come fa la musica, anzi ha longa permanenzia, e ti si lascia vedere e considerare, e non rinasce, come fa la musica nel molto sonare, né ti induce fastidio, anzi, te inamora, et è causa che tutti li sensi insieme con l’occhio la vorrebbon possedere, e pare che a gara vogliono combattere con l’occhio. Pare che la bocca se la vorrebbe per se in corpo, l’orecchio piglia piacere d’udire le sue bellezze, il senso del tatto la vorrebbe penetrare per tutti li suoi meati, il naso ancora lui vorrebbe ricevere l’aria ch’al continuo di lei spira. Ma la bellezza di tal armonia il tempo in pochi anni la destrugge: il che non accade in tal bellezza imitata dal pittore, perché il tempo longamente la conserva, e l’occhio in quanto al suo uffizio piglia il vero piacere di tal bellezza dipinta, qual si facessi nella bellezza viva. Mancali il tatto, il qual si fa maggior fratello nel medesimo tempo, il quale, poi che arà auto il suo intento, non impedisce la ragione del considerare la divina bellezza.”)

Sopra l’enorme Leonardo da Vinci – forse nell’interpretazione di Francesco Melzi – nel trattato della pittura, ragiona della supremazia della stessa nei confronti della musica – altra arte – e arriva a spingere il confronto, tra la suprema delle arti, invenzione umana, e i sensi – vista, gusto, tatto, olfatto – che escono perdenti, di cui ci avrebbe dotato il buon Dio o madre natura se più vi aggrada, ma temiamo di andare fuori tema per la sola testimonianza di quanto l’argomentare sulla supremazia delle arti sia stato vasto e pregnante attraverso i secoli. Siamo già al più pazzo di tutti. Siamo a Michelangelo Merisi da Caravaggio che pur muovendo da Leonardo ed Arcimboldi (capace di sostanziare anche l’aria)

popola i suoi giorni e le sue notti, signore assoluto della luce e del buio, di una miriade di forme assolutamente compiute, ben documentate in queste pagine dai numerosi articoli di Maurizio Bernardelli Curuz e che tuttavia  hanno anche la prerogativa di poter essere interpretate a seconda degli incubi e ossessioni, ma anche sollievi e conforti da parte di chi guarda ed è capace, cosa invero piuttosto rara in questo strano e assurdo mondo virtuale, di emozioni. La notte e il giorno di Caravaggio ed anche, sempre di lui, il volto e la nuca, il maschio e la femmina per la compiutezza della rappresentazione che continua a mostrare di poter sfidare l’idea tridimensionale del tutto tondo.

Dal turgido culo dell’ermafrodito dormiente di Bernini che pur scolpito ci è mostrato solo di schiena, in una strana commistione tra non dipinto e non completamente scolpito, riusciamo a cogliere la natura di maschio e femmina al contempo.

Natura assolutamente autonoma, sufficiente ed indipendente. Lo scriviamo in anticipo, non si sa mai, della probabile approvazione della legge Zan, non vorremmo esser citati a giudizio e anche a testimonianza dell’attualità dell’argomentare. Divertente ed ironica la rappresentazione di suora del settecentesco e sconosciuto Martin van Meytens

che con poco talento e molto spirito ironico introduce e rappresenta nel dibattito sul primato tra pittura e scultura – attraverso la rappresentazione del lato a e b di una suora – il dualismo tra sacro e profano. La campitura dell’enorme posteriore nudo della suora che invade la tela per intero e che rimanda con forza alle opulenti carni veneziane di Giorgione e Tiziano non lascia dubbio alcuno sulla supremazia del profano nei confronti del sacro, ma noi siamo di parte. Delusi un po’ da un piede malato, ancorché quasi guarito, abbiamo tributato a Bacco un qualche sacrificio, forse troppi, ma consumati, siamo ricchi dentro e presuntuosi, in un prezioso e antico calice di cristallo di Boemia. La marca del prezioso nettare la omettiamo che la pubblicità sarebbe gratuita e non pagata. Delusi e in cerca di conforto tra i fumi dell’alcool e la nebbia di un toscano arrotolato a mano (cosce di creola non erano purtroppo disponibili e di badesse neanche a parlarne), selezione di foglie di pregiatissimi Kentuky, il fumo dell’eternit lo lasciamo volentieri agli altri, ci siamo sperduti nella palude di questo assurdo divertissement. Il nostro sigaro ha il gusto piacevolmente amaro con sottili note dolci proprie della nostra terra; un aroma intenso profondo e inaspettato che arriva dal mare e certamente dal suo collo; mai visto uno sternocleidomastoideo così superbo, elegante, robusto, pieno, esaltante e da morsi che sorprende come la sua forza, ma mi sa che l’alcool ci abbia dato dato un po’ alla testa. È di oggi la notizia di due Modigliani battuti in asta da Sotheby’s che la critica e tutti i cataloghi danno per autentici, ma che a noi paiono veramente brutti, ma di questo torneremo a parlare.


Di Modigliani ci interessa invece il connubio tra talento e genio che spesso viaggiano associati. Lui fu certamente genio e poi, magari, diremo anche perché. Ebbe indiscusso talento, ma non ebbe certo la forza di pensare una Sistina e tantomeno di realizzarla (cito dal mio amico avvocato Mauro Nutricati che ha avuto la sventura di inviarci un messaggio/comunicazione durante il manifesto ed evidente stato di alterazione mentale che ancora incombe). Sistina affrescata e Michelangelo pittore e scultore senza se e senza ma ed ecco che il dualismo e la lotta per il primato ritorna. Giulio II della Rovere fece dipingere la Sistina allo scultore Michelangelo che la realizzò controvoglia e sembra anche a suon di legnate. Pare che Giulio fosse un po’ collerico e che, almeno in parte la realizzazione sia stata opera anche del suo bastone. Questo ci rende meno gigante Michelangelo nei confronti di Modigliani che sappiamo anche tisico. Modigliani anche lui scultore e pittore insieme e anche lui assolutamente partecipe della disputa secolare. Prima in favore della scultura e poi giocoforza per via della tisi, che la polvere di marmo alimentava in modo pericoloso, a favore della pittura. Non c’è fronte e retro in Modigliani? Niente tutto tondo rappresentato nei suoi dipinti? Suvvia un po’ di fantasia è stato o non è stato un genio? Chi ha inventato gli occhi ciechi delle sue donne che permettono la visione dell’anima?

Quante emozioni davanti ai suoi colori che ci mostrano lei, la donna, la luna, l’altra metà del cielo in tutta la sua meraviglia. Nessuna scultura sarebbe mai in grado di poterlo fare. Certo emozione è suscitata anche dalla mano di Plutone, scolpita da Bernini, che affonda nelle carni di Proserpina

ma ci pare più roba da guardoni e da masturbazioni mentali ancorchè, privi di qualsivoglia ipocrita convenzione e o pregiudizio, riteniamo l’opera sublime.
Modigliani, tuttavia, stimola ed eccita la più remota corteccia cerebrale ed è capace di andare oltre la mera rappresentazione e sofisticata è la chiave di lettura necessaria per la comprensione dei suoi occhi velati. Lui riesce a mettere a nudo l’anima intanto che fa anche del mero sesso e o che, nel caso di Elvira ad esempio, sembra appena averlo fatto.

Fuori categoria! Ritorna con lui Piero. Il Piero enorme ‘dell’arte non eloquente’ che per primo misura la bellezza e vorremmo noi aver coniato l’espressione che purtroppo ed invece è di Bernard Berenson.

Non necessitano parole che è l’idea che si debba partire dalle regole di rappresentazione, per tutte le possibili visioni e conoscenze del rappresentato, l’essenza del tutto. Questo però dubitiamo che Berenson lo avesse capito fino in fondo (fu americano!) al di là della felicissima definizione di cui è stato capace. L’opera d’arte è un campo relazionale tra più individui, il tramite tra creatore e fruitori. Mai è frutto di autogenesi e mai assurge al ruolo disgiunta dal pensiero critico e dall’argomentare. Arriviamo così, dopo Modigliani, a due veramente minori (per comprendere appieno quanto sostenuto prima): Giovanni Colacicchi a sx e Francois Louis Schmiedt a dx .

Prodotti che immaginiamo, di una insulsa accademia, partecipano in due alla vecchia disputa. Uno Giovanni mostra il fronte associato al buio e l’altro Francois Louis si concede al retro e al giorno. Secondo la nostra amica Francesca Cagianelli (virtuosissima e infaticabile responsabile della Pinacoteca Servolini nonchè autrice del mirabile ed inedito accostamento) sarebbe ora di esplorare più a fondo il “rapporto evidentemente tutto da studiare e delineare” che intercorre tra i due ed anche che “…sarebbe importante cominciare a recuperare le matrici internazionali dei nostri artisti”.

Se non fosse che, carissima Francesca, a noi pare che tutto muova ancora da Piero che mostra già fronte, retro, fianco, dritto e piegato battezzato e forse anche no, in un unico soggetto avvolto per di più in una luce incantata e tutta sua.

Propria di un mondo sospeso tra il mare dove il sole nasce: la terra di Sigismondo e il mare dove il sole va a morire e dove i Fiorentini faranno poi il loro porto: Livorno. Ci affascinerebbe anche trattare dei tagli sulle tele di Fontana ed affacciarci oltre il rappresentato e rappresentabile, ma la bottiglia è finita, il sigaro pure e comunque per mondi geometrici diversi da quello di Euclide, bisognerebbe scomodare prima il russo Nikolaj Ivanovic Lobacevskij e l’ungherese Jànos Bolyai e ricominciare ancora dal fantascientifico Piero che, nelle astrazioni cui sono affetti i geni, di certo si incamminò per primo nell’affascinante mondo delle geometrie non euclidee ben oltre pittura e scultura. Qui, tuttavia, si tratta di altro di emozioni e di arte. Siamo più vicini al cuore che alla mente e non sarebbe tutto facilmente comprensibile specie se spiegato da chi, forse un po’ turbato, ci pare uso saltare di palo in frasca.

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Maurizio Bernardelli Curuz
Maurizio Bernardelli Curuz