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Nicolas Poussin, uno dei principali interpreti della tradizione classicheggiante molto presente nella pittura seicentesca, aderì perfettamente al modello formativo della sua epoca, che lo portò al confronto con i grandi modelli del secolo precedente, quali Tiziano o Raffaello. Fu soprattutto quest’ultimo a fornire al francese i principali parametri artistici, legati a doppio filo alla cifra di classica compostezza dell’urbinate. È curioso notare che l’“appropriazione” di Raffaello da parte di Poussin (al punto che la sua opera ne è stata considerata “un commento senza parole”) iniziò con un autentico atto di vandalismo: fra i graffiti che segnano i muri della Stanza di Eliodoro in Vaticano appare infatti la firma del pittore d’oltralpe, con la data 1627. Il graffito confermerebbe l’ammirazione che l’artista francese nutrì per il grande maestro urbinate, morto nel secolo precedente.
L’iscrizione sarebbe stata vergata da Poussin tre anni dopo il suo arrivo a Roma. Al di là delle considerazioni che possiamo compiere oggi su questo comportamento, il graffito, anche deturpante, è connaturato al comportamento umano nelle zone percepite come altamente sacrali e non rappresenta – come intendiamo oggi – un atto di vandalismo, ma il segno di un’unione tra spiriti. Gli studi legati ai graffiti rupestri e ai santuari dimostrano che l’atto dell’incisione è un segno di fusione tra l’individuo e la divinità. un traccia che rende immortale il ricordo della permanenza individuale in aree altamente sacralizzate. Le indagini compiute in luoghi di culto antichi testimoniano la quantità di incisioni praticate da fedeli nei santuari in cui la vicinanza con l’Eterno fosse percepita con maggior intensità.