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di Stefano Maria Baratti
Se potesse apparire di primo acchito paradossale, se non inadeguato, identificare un topos ricorrente nelle opere di un’artista che dichiara apertamente di «non aver mai concepito l’arte a tema esclusivo ma come risultato di sfoghi molteplici», è forse possibile rivendicare almeno affettivamente una comune matrice ad un genus loci. Nel panorama artistico del nostro tempo è infatti impossibile dissociare il Rinascimento umbro, e soprattutto Perugia, dai capolavori del Maestro Franco Venanti, il pittore perugino inserito nell’Albo d’Oro dei cittadini più illustri – fondatore dell’Associazione Culturale «Luigi Bonazzi» insieme a Gerardo Dottori e oggi considerato tra i maggiori rappresentanti della pittura contemporanea in Europa. E sono proprio le suggestive colline umbre e le affinità elettive con la sua città e la sua terra – le stesse visioni attente e consapevoli di Pietro Vannucci e dei suoi seguaci, che al realismo della raffigurazione associarono le atmosfere e le emozioni dei pittori fiamminghi – a rappresentare il contesto e la formazione classica dell’impronta pittorica di Venanti che da sempre affonda e dissemina contenuti metaforici in una cornice polivalente, ora storica ora filosofica, ma sempre rivestita di una forma altamente misteriosa, poetica e avvincente.
In un’epoca tecnologica sempre più avanzata, omologante e contrassegnata dalla perdita di un’identità che si sente sfuggire fagocitata dai ritmi dell’informatica contemporanea, nonché dall’alienazione dell’individuo e suo divorzio dal tessuto sociale, Venanti continua a narrare la realtà – nella maggioranza dei casi entro parametri figurativi – con una successione di impressioni e divagazioni, sconfinando perlopiù nel sogno e nella scomposizione dei particolari. La sua opera si potrebbe configurare come uno straordinario laboratorio d’idee controcorrente, da una parte densamente impregnato di realismo magico, dall’altro squisitamente rinascimentale, tra riviviscenza gotica e simbolismo immateriale, ascrivibile ad uno stile fluido e soprattutto appartenente alla sfera dell’ineffabile.
Se l’unica metodologia capace di trasformare meri giudizi privati in universali giudizi di gusto è rintracciabile nella Poetica di Aristotele, che grazie all’analogia oraziana “ut pictura poesis” era assurta a testo base per ogni considerazione estetica, si potrebbe tentare (senza tuttavia essere obbligati dall’esame di opere singole) di evidenziare alcune tematiche e simboli ricorrenti nei dipinti di Venanti, che al di là di giudizi di valore e gusti personali, sembrano intimamente legate alle sue convinzioni filosofiche, e a fondamento della produzione delle sue opere. A mio avviso, meriterebbero pertanto particolare attenzione i seguenti segni, simboli e soggetti riscontrabili in vari suoi dipinti: il Potere, la Gnosi, la Donna e l’Armatura, tutti elementi che offrono una chiave interpretativa capace di aggregare la sensibilità estetica del pittore perugino.
IL POTERE
“Odio il potere. Chi sale su una sedia m’infastidisce per il solo fatto che si sceglie il piedistallo. Sono stato amico di guevaristi e preti scismatici. Nel gruppo culturale Bonazzi, che sciolsi nel ’74, vissi attimi inebrianti di sfida e protesta. Ma diffido degli aggiustamondo di professione.”
Con un filo di sarcasmo, Venanti utilizza – o forse crea, de lui même – un neologismo combinatorio di nuovo conio: «aggiustamondo», un sintagma nominale costituito da un verbo (aggiustare) e un sostantivo (il mondo), che con tono perentorio intituitavemente evidenzia il legame con un simbolo del potere occulto, l’«aggiustamondo di professione», un termine che da un canto identifica un’eminenza grigia investita ufficialmente di una carica gerarchica o sociale e che allude all’esercizio di un potere coercitivo (minoritario o tirannico, laico o ecclesiastico), e dall’altro veicola il significato teleologico di «demiurgo maligno», un sovvertitore dell’ordine naturale, che ha precipitato l’uomo nel cosmo, nel caos e nell’entropia, e che marca drammaticamente o disperatamente la condizione umana. Difronte a tale «aggiustamondo», le opere dell’artista perugino – già testimoni nel corso degli anni, dai tumultuosi anni Settanta fino all’attuale globalizzazione, dei meccanismi di egemonia culturale della classe dominante – propongono immagini di vigorosa incisività con i suoi colori e le sue figure in primo piano quasi sempre sovrapposte ad ulteriori figure e dettagli – in certi casi volutamente kitsch – con strati di realtà che si sovrappongono tramite frammenti di un espressionismo che non oltrepassa la verosimiglianza ma privilegia l’interiorità e l’emozione senza escludere il dato oggettivo.
Molte sono le opere che posizionano al centro di un vortice asimmetrico l’allegoria o l’icone dell’«aggiustamondo», una figura seduta in un trono con paramenti liturgici, oppure dietro una cattedra tra zone d’ombra che avvertono il peso della burocrazia, tutte forme allegoriche di un potere che preclude l’identità e soprattutto la libertà individuale, controllando ogni categoria della società, soprattutto quella culturale. L’artista spesso descrive i simboli del potere su interni claustrofobici e tenebrosi, lungi da qualsiasi tecnica pittorica «en plain air», facendo ricorso a colori puri e velature, stesi su una moltitudine di forme occupanti il solo piano frontale, dove traspare la propensione per una composizione a due dimensioni con abbandono della profondità di campo, conferendo all’opera un senso di «horror vacui», la macabra sede del potere delle idee e di conseguenza l’invisibile impalcatura dei meccanismi di controllo delle masse.
L’opera di Venanti non sembra tuttavia seguire un percorso storico che ritrae i fatti sociali di un’epoca, ma un’indagine che approfondisce situazioni più profonde dove necessità di rinnovamento in campo artistico – e bisogno di evoluzione in campo sociale – coincidono verso forme nuove scevre di contenuti tipici dell’ideologia dominante, in grado di contribuire al telos dell’arte la liberazione dell’uomo; non si tratta nemmeno di un processo di rifiuto del vecchio a favore del nuovo, in quanto Venanti spesso ripristina e ricompone prospettive irreali che richiamano artisti quali Paolo Uccello, pittore della prima generazione di artisti fiorentini del Quattrocento, oppure architetture di sottofondo che richiamano la planimetria di Piero della Francesca e potrebbero denotare l’anima medioevale della sua città natale: l’oggettualità delle immagini e la contemplazione di Perugia e dei suoi multiformi simboli di antichità. Dipinti che protendono verso l’allegoria, la morale, l’anagogia, e che compongono una visione del mondo intesa a celebrare l’universo nella sua creaturalità armoniosamente bella in perfetto equilibrio tra cosmologia del sacro e matematica del profano.
LA GNOSI
”Quando Diego, Alessio e Manuele mi chiesero, dopo una conferenza sugli UFO all’Associazione “Bonazzi”, che cosa ne pensassi dei dischi volanti e se credevo all’esistenza degli alieni, risposi che la vita dell’uomo è circondata dal mistero e che durante l’esistenza a ogni persona, costantemente, accadono cose inspiegabili…”
Nel saggio biografico Franco Venanti. Un pittore sui Sentieri dell’Ignoto, gli autori Diego Antolini, Alessio Sargentini e Manuele De Luca, proposero al maestro perugino un dialogo sulle esperienze misteriose e inspiegabili legate alla vita, al pensiero e all’arte, al mondo onirico e dell’inconscio, e alle forze occulte.
Ad occhi superficiali, le probabilità dell’esistenza di esseri alieni – organici o inorganici – nel nostro sistema solare, le possibilità di civiltà tecnologiche nell’universo, oppure le ipotetiche visite di Arconti o entità extraterrestri che avrebbero dato il via all’evoluzione della nostra «luce interiore» come il dono dell’ intelligenza divina molti secoli prima dell’Era Cristiana, potrebbero risultare solo come degli esercizi teorici, se non fossero corroborati da ulteriori tesi sulla possibilità di una visione del mondo originale, ma anche un diverso rapporto tra l’uomo e la divinità tramite la Gnosi (o «Divina Sophia»).
Ci chiediamo pertanto se tra i Sentieri dell’Ignoto il ruolo dell’artista in generale, e del Maestro Franco Venanti in particolare, sia anche quello di offrire e divulgare al mondo una «conoscenza interiore», una pregnanza mistica simile a quella degli iniziati alle scuole misteriche nel pensiero arcaico, e di tutto il Neoplatonismo rinascimentale nella fase di esplorazione tra psiche e cosmo, basata sulla scissione tra uomo e divinità.
Il filosofo tedesco Hans Jonas osserva che, nel pensiero gnostico, l’uomo, per un suo processo evoluzionistico, emerge dalla natura, viene «gettato fuori dalla natura» ed è rigettato a se stesso. Da un mondo che è suo «cade» in un mondo che non è suo. Si potrebbe pertanto avanzare l’ipotesi che l’influenza di questa concezione di separazione tra cosmo e divinità si trovi, in una certa misura, nella funzione stessa dell’arte, laddove tramite un processo di auto-realizzazione, l’artista si ricongiunge col proprio Essere divino intimo, permettendo al proprio estro di esprimersi in tutti i livelli: del corpo fisico, energetico, emozionale, mentale, della volontà e della coscienza. Arte quindi intesa in veste di «luogo del tempio», che ci propone una topologia indiscutibile del «sacro», è questa un’altra chiave di lettura delle opere del maestro perugino, dove abbondano parallelamente paesaggi e personaggi misteriosi, onirici, che racchiudono un senso iniziatico, formativo, compiuto metaforicamente attraverso i labirinti dell’anima per riportare alla memoria divenuta cosciente le immagini indelebili del proprio passato: un percorso quindi dalla tenebra alla luce, un processo di risalita, di plotiniana memoria. Muovendo da una radicale indagine realistica, egli mira a organizzare realtà sconvolgenti entro calcolatissime costruzioni formali che annullano ogni esplicita connotazione del vero entro un impianto irrealistico e astratto. Venanti sembra svincolare l’arte dai lacci del mondo profano, astraendo – con il senso e la logica del mistico – le contingenze della religiosità, ricercando astrazioni di pura spiritualità in un’era moderna che non riesce più a riconciliarsi col senso del sacro (inteso come pneuma, spirito, sé interiore), e che spesso l’artista – enfatizzando i simboli delle forze occulte del potere – rivela del tutto estraneo e dissociato da qualsiasi trascendenza dalla sfera del materiale e del contingente.
LA DONNA
«Mi hanno sempre attirato, nel bene e nel male, quando le rinnego e quando le rimpiango, e quando le cerco di nuovo. Penso che le donne siano gli animali più pittorici, oltre che i più pittoreschi, che possano insegnare ad un artista il gusto di vivere e la voglia del misterioso…»
La donna è una presenza costante nelle tele di Venanti, figura spesso enigmatica, diafana, quasi un medium, un velo di Maya, dalle potenzialità magiche ed occulte per accedere a realtà immaginali, ora seducenti e pericolose – dove si incarna il mistero ancestrale e mitico della congiunzione di Eros e Thanatos – oppure raramente sorridenti e ritratte come grandi forme statiche, di estrema semplicità e severità, inquadrate in uno spazio prospettico rigorosamente compositivo e sottolineate dall’assoluto equilibrio delle masse cromatiche. Questo archetipo di bellezza fisica femminile, spesso ombra inquietante animata da colori preziosi e di fantastici ghirigori, in un contesto impregnato di un simbolismo quasi neoplatonico, sembra affondare le sue radici in una rilettura ficiniana della mitologia: non è la donna ideale o classica in stretta correlazione con la divinità, ma una donna vera, libera ed emancipata, resa con colori vividi, ambrati, esente da ogni ipocrisia o artificiosità, con un impasto di colori armonioso e caldo e con felici toni di luce. Suo malgrado, il prototipo della modernità femminile dell’artista perugino mantiene un grado di monumentalità arcaica nelle scene, specialmente quando la nudità sinuosa, resa con calda sensualità, si adagia su fredde armature medievali con un sottile filo erotico, riproponendo il dualismo fra concupiscenza terrestre e aspirazione spirituale.
I soggetti dei dipinti, le diverse funzioni di elementi criptici e i contraddittori significati della donna nelle tele di Venanti, sembrano provenire dall’idea platonica della duplicità di Venere e della conseguente duplicità di Amore (la teoria di Ouranìa e Pandemos), che in epoca rinascimentale furono attribuiti a questa figura sfuggente e intrigante della donna, inequivocabilmente legati alla tematica del sacro e del profano, l’uno divino e virtuoso, l’altro terreno e sensuale.
Questa duplicità presuppone molteplici livelli di lettura. Nella contemporaneità dei quadri le valenze si intrecciano: donne severe e composte, ieratiche, eleganti, occhi luminosi che seducono e ipnotizzano guardando intensamente l’artista. Donne in attesa quasi metafisica, malinconiche, al pari di profetesse detentrici di verità che vogliono trasmettere, maghe-sacerdotesse che presiedono l’iniziazione al sapere sovrannaturale, segno della trance – del passaggio da uno stato all’altro, dall’umano al divino. Sono donne rigorosamente racchiuse in una struttura di enigmaticità compositiva definita da una suddivisione armonica di linee, spazi e superfici, che da un canto bloccano i gesti in un’immobilità precaria ed istantenea che richiama Piero della Francesca, e dall’altro sconfinano in una profondità di campo su esterni di prospettive atmosferiche che abbandonano le asperità in favore di dolci colline ondulate, presentando forti analogie con gli sfondi del Perugino.
La capacità magica di Venanti di armonizzare tutti gli elementi di magica fantasia, di mondi che vivono sulla soglia del sogno, della vita notturna e del mito, è velata da un impulso di trasfigurazione idealistica della figura femminile – icone intessuta in una «proporzione aurea» di incantevole delicatezza – che accede a un mondo enigmatico, non più esterno, ma interno, e segnala un’identità complessa per il ruolo e il potere magnetico di cui è portatrice.
L’ARMATURA
“…E poi, alle volte, con raccapriccio, mi sorprendo in fragrante nostalgia di valori che una volta pensavo fosse giusto distruggere e che invece, forse, bisognava conservare. Almeno quelli eterni, che proteggono la nostra individualità, la nostra ansia di libertà e di civiltà.”
Cavalieri in armatura a piastre su cavalli bardati con particolari bellici fantasiosi, forme coniugate su prospettive ortogonali da tavolozze cromatiche irreali, elmi a becco di passero, grande elmi a coppo ogivato dalle ventaglie abbassate, pettorali in ferro, forse cavalieri templari ripresi in battaglie o tornei che sovrapposti in aree asimmetriche con lunghe lance diagonali ribaltano l’equilibrio della notte. Come avviene nel trittico della Battaglia di San Romano di Paolo Uccello, le medesime simbologie aritmetiche ed esoteriche si celano nelle armature dipinte da Franco Venanti, ascrivibili alla riviviscenza del Gotico Cortese della Confraternita dei Preraffaelliti, la corrente artistica della pittura vittoriana del XIX secolo che riportava in vita i costumi di un passato immaginario e nostalgico, tentando inoltre di unificare fra loro i concetti di vita, arte, e bellezza.
Sorge la domanda se la geometria euclidea di queste opere risulti disposta secondo un reticolato ben definito, e se dietro queste corazze richiuse al mondo esterno si racchiuda un simbolismo che potrebbe riferirsi all’evoluzione spirituale dell’uomo: l’immagine del condottiero, che a livello più profondo simboleggia la duplicità insita sia nella natura dell’Ordine, monastico e guerriero, sia in quella dell’uomo, divina a umana.
In questo concetto si potrebbe riconoscere un processo di rinascita, quello dell’«investitura del cavaliere», come nella famosa incisione a bulino di Albrecht Dürer Il cavaliere, la morte e il diavolo, dove con l’iniziazione il soggetto viene “gettato fuori” dal mondo profano ed è rigettato a se stesso, svincolandosi da tale mondo, ritrovando se stesso nella propria essenza e così sperimentando quella propria solitudine in un mondo che si disgrega, denso di allegorie e votato all’incompiutezza, alla frammentazione, (il mostruoso diavolo che lo segue impugnando un’alabarda, con le fattezze grottesche di un incrocio di animali cornuti) che già i Platonici fiorentini avevano previsto ponendo l’uomo al centro dell’universo, come essere distinto dal divino e dalla natura.
Lungo un percorso di coscienza del sacro che segue i messaggi del Sé più ci si avvicina alla propria essenza divina, si potrebbe avanzare l’ipotesi che i cavalieri nelle tele di Venanti esprimano la possibilità di un perfezionamento interiore dell’artista che si estrinseca nell’agire per il miglioramento della società profana. Parallelamente, il simbolo dell’armatura potrebbe rappresentare il mezzo attraverso il quale si pone in evidenza la prigione dell’Io pneumatico, l’essenza spirituale imprigionata all’interno della corazza che lo lega al mondo e che solo grazie alla propria conoscenza potrà separarlo definitivamente dal cosmo e in definitiva dalla sua stessa natura materiale.
Nell’atto stesso di dipingere, il Maestro Franco Venanti sottolinea l’importanza dell’agire dell’uomo, inteso come soggetto e non come oggetto della storia.
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Il Potere, La Gnosi, la Donna e l’Armatura nelle opere di Franco Venanti
In un’epoca tecnologica sempre più avanzata, omologante e contrassegnata dalla perdita di un’identità che si sente sfuggire fagocitata dai ritmi dell’informatica contemporanea, nonché dall’alienazione dell’individuo e suo divorzio dal tessuto sociale, Venanti continua a narrare la realtà – nella maggioranza dei casi entro parametri figurativi - con una successione di impressioni e divagazioni, sconfinando perlopiù nel sogno e nella scomposizione dei particolari. La sua opera si potrebbe configurare come uno straordinario laboratorio d’idee controcorrente, da una parte densamente impregnato di realismo magico, dall’altro squisitamente rinascimentale, tra riviviscenza gotica e simbolismo immateriale, ascrivibile ad uno stile fluido e soprattutto appartenente alla sfera dell’ineffabile