Il primo presepio non fu di San Francesco

Dietro la leggenda del presepe di Greccio si nasconde in realtà una rivisitazione del Natale mediante materiali all’epoca già disponibili. Come le statue lignee del Bambino Gesù usate nei “drammi liturgici” fin dal decimo secolo.


di Enrico Giustacchini

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Chiara Basta è stata la curatrice della mostra “Il Bambino Gesù nella collezione Hiky Mayr”. Stile Arte ne ripropone l’interessante intervista, che mette in luce aspetti artistici e devozionali delle statue del Bambin Gesù e del presepio
Come ricorda in un suo saggio l’antropologa Elisabetta Silvestrini, “nelle classi sociali più elevate, il culto del Gesù Bambino era già pienamente affermato nel XV secolo, quando in ambiente fiorentino compaiono gli elementi costitutivi del culto delle ‘Sante bambole’, secondo la definizione che ne ha dato Christiane Klapisch-Zuber”. Ma quando ha inizio, in realtà, questa pratica devozionale?
Bisogna andare molto più indietro nel tempo, quando – tra il X ed il XII secolo – si vanno perfezionando quelle composizioni poetiche e musicali conosciute sotto il nome di “drammi liturgici”. A Natale e Pasqua – ricorrenze strettamente unite, all’epoca, da continui rimandi tra l’evento gioioso della nascita del Cristo e quello, prima drammatico e poi festoso, della morte e della resurrezione – i “drammi” venivano recitati. La “regìa” prevedeva per le parti principali l’impiego di statue lignee, rispetto alle quali esisteva peraltro già una forte devozione autonoma (erano usate come portareliquie). A mio giudizio, qui sta la probabile origine del culto: culto che verrà poi riproposto in versione rinnovata da Francesco d’Assisi.
Ma come! Credevamo che San Francesco fosse l’“inventore” del presepio…
Quello che viene tradizionalmente definito come “presepio” – il famoso “presepio di Greccio” – fu invece nella realtà, secondo me, una rivisitazione della Natività eseguita attraverso l’utilizzo di materiali già disponibili ed assimilati dall’immaginario collettivo del tempo: a cominciare proprio dalle statue del “Divino infante” di cui stiamo parlando.
Il culto legato al Bambin Gesù è diffuso anche nei secoli successivi.
Per quanto riguarda il XIV secolo, abbiamo testimonianze di “Bambini” collocati nei monasteri – maschili e femminili -, ma pure in case private della Germania e più in generale del Nordeuropa. La pratica finisce però per diffondersi in modo trasversale un po’ in tutto il Continente, magari supportata da testi di devozione che rispecchiavano le diverse peculiarità culturali.
Il “periodo aureo” è comunque quello che va dal XVI al XVIII secolo, come ci conferma del resto la collezione Hiky Mayr.
Storicamente, è tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento che si assiste alla riscoperta dei valori positivi legati all’infanzia. Una rivalutazione della prima età dell’uomo che avviene di riflesso all’infanzia di Cristo, ed attraverso la sua mediazione. Con le conseguenti ricadute di ordine sociale e spirituale, anche negative: tra le carte dell’Inquisizione pervenuteci, vi sono atti di processi contro persone accusate nel Napoletano di aver diffuso la notizia di bimbi miracolati, che dopo poche settimane di vita si rizzavano in ginocchio a pregare, o che, ancor piccolissimi, allontanavano i balocchi ogni qualvolta vedevano una coroncina del rosario, da cui si sentivano attratti in maniera irresistibile, e cose simili. In quest’epoca, le statue del Bambin Gesù finiscono per diventare oggetto di pratica devozionale ovunque (pure fuori d’Europa: pensiamo ai riti delle Filippine, colonia della Corona di Spagna), e per l’intero anno liturgico.
I bellissimi pezzi della collezione ci raccontano che fu il Settecento il secolo del massimo splendore dal punto di vista artistico.
E’ così. Ciò trova riscontro in un’impostazione fortemente realistica. Non possiamo che rimanere affascinati dalla straordinaria qualità della scultura (si veda l’espressività del volto di molte statue), dalla precisione della resa anatomica, accresciuta dalla policromia (per cui i gomiti sono rossi, le labbra rosa-turgido, i dentini bianchi) e dalla polimatericità (un esempio per tutti, gli occhi in pasta di vetro), dall’accuratezza del dettaglio (ecco le parrucche di seta, quando non di veri capelli).
Quanto lei mi sta dicendo introduce ad un aspetto particolarmente suggestivo: quello delle caratteristiche tecnico-artistiche delle statue del Bambin Gesù. A cominciare dal capitolo relativo agli abiti. Abiti sontuosissimi, di solito: con la conseguente necessità di “giustificare”, dal punto di vista dottrinale, l’ostentazione del lusso a fronte della povertà di Gesù, nato da pastori in una stalla. A metà del Cinquecento, santa Caterina dei Ricci riferirà in una sua “Visione” la risposta di Maria Vergine a tale dubbio: i vestitini – informa la Madonna – sono confezionati con le orazioni delle pie monache durante l’Avvento!
Spesso la giustificazione era meno articolata: Cristo è Re – si diceva in sostanza -, ed un re non può che disporre di abiti sfarzosi. Ecco così che le statue, seppure interamente scolpite, e complete in ogni dettaglio – non esclusi gli attributi sessuali -, nascevano già predisposte ad essere rivestite. Gli indumenti erano di stoffe preziose, ricavati sovente da paramenti sacri; ed erano intercambiabili. Non solo a seconda dei diversi periodi dell’anno liturgico, ma anche in occasioni speciali: durante il Giubileo, ad esempio, i Bambini Gesù diventavano “piccoli pellegrini”, con tanto di cappello e bordone. Non è raro il caso in cui i simulacri, nati “interi”, venivano mutilati e resi snodabili proprio per favorire la vestizione.
Quando il culto del “Divino infante” comincia a perdere la sua importanza?
Dopo aver raggiunto, nel XVIII secolo, il suo apice, il fenomeno subisce una rapida decadenza. Gli artigiani cominciano a costruire modelli di pregio assai minore, spesso limitati alla testa ed alle braccia, a cui si collega il vestito, un po’ come avviene per i burattini e per le sculture dei presepi napoletani. Nel contempo – sempre analogamente alla pratica presepiale – si assiste al trionfo della scenografia, a base di elementi di natura e paesaggio oppure riferibili – nel già citato rimando Nascita-Morte – alla Passione.
Può dirci qualcosa a proposito dei materiali usati nella fabbricazione delle statue?
Il legno ha assoluta predominanza, ma non mancano esempi di sculture in terracotta e, più raramente, in cartapesta. In epoca tarda, nel XIX secolo, si fa più frequente il ricorso alla cera. Gli abiti sono quasi sempre in seta, impreziosita da ricami, guarnizioni e decorazioni. Antichi inventari fiorentini ci raccontano di Bambini Gesù dotati di veri e propri guardaroba stipati di vesti di valore strabiliante, intessuti di perle, rubini ed altre gemme.
Conosciamo i nomi di qualcuno degli artisti che si dedicò a queste opere?
Molti sono purtroppo rimasti nell’anonimato. Spesso si trattava di religiosi, che creavano i loro capolavori nel chiuso dei monasteri. Un attività in tal senso risulta documentata già negli anni Venti-Trenta del XVI secolo nel convento domenicano di Lucca. Per quanto riguarda le botteghe artigiane gestite da laici, nel nostro Paese le stesse erano concentrate, nel periodo di maggior fortuna del genere, soprattutto al sud, dove rifulse la stella di autentici virtuosi come il napoletano Giuseppe Sanmartino (o Sammartino) ed il siciliano Domenico Vaccaro. In precedenza, si erano però misurati con i Bambini Gesù anche sommi maestri dell’arte italiana, quali Baccio da Montelupo e Desiderio da Settignano.

Radiosi volti d’inverno
 Autentici capolavori di tre secoli d’arte italiana in una raccolta unica al mondo Nel 2002 Stile arte intervistò Hiky Mayr, la collezionista che, per oltre trent’anni, ha raccolto queste splendide statue. Riproponiamo quell’incontro.
Signora Mayr, ci racconti come e quando nasce la sua passione per i Bambin Gesù.
Nasce trent’anni fa, quasi per caso. Stavo esaminando del vasellame da un rigattiere, quando da una vecchia pentola di rame vidi spuntare due gambette. Pensavo ad una bambola, invece era una statuina del Bambin Gesù. Malridotta, tanto da sembrare bruttissima. Il rigattiere me la regalò. Dopo un po’ di tempo ne trovai un altra, e la comprai. Poi un’altra ancora… Pian piano, mi lasciai prendere. I Bambin Gesù costavano poco, non c’era mercato. Spesso mi capitava di rinvenirne di muniti di ali posticce: “truccandoli” da angioletti o cupidini, i rigattieri avevano qualche speranza in più di trovare un acquirente. Quasi senza accorgermene, la mia collezione si stava formando. Alla base, peraltro, c’era il grande amore per le cose belle che coltivo da sempre, e che ho ereditato dalla mia famiglia.
E oggi, quale consistenza ha raggiunto la collezione?
Dopo tanti anni di pazienti ricerche, di contatti con mercanti antiquari, commercianti, quale caso con privati, sono arrivata a 270 tra sculture e gruppi di sculture, tutti di fabbricazione italiana, e risalenti ad un periodo compreso tra il XVII ed il XIX secolo. In massima parte sono effigi del Divino infante, ma non va dimenticata una significativa serie di Marie bambine, sorta di versione al femminile del soggetto. Si tratta della maggiore collezione del genere al mondo: ed è destinata ad ulteriori, futuri ampliamenti. Voglio aggiungere che in parallelo con le acquisizioni ho avviato l’attività di restauro: quando risulta necessario, effettuo personalmente il delicato intervento di ripristino delle statue, degli abiti e degli ornamenti.
IL LINK AL MUSEO DEL DIVINO INFANTE DI GARDONE RIVIERA
http://www.il-bambino-gesu.com/
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Stile Arte è una pubblicazione che si occupa di arte e di archeologia, con cronache approfondite o studi autonomi. E' stata fondata nel 1995 da Maurizio Bernardelli Curuz, prima come pubblicazione cartacea, poi, dal 2012, come portale on line. E' registrata al Tribunale di Brescia, secondo la legge italiana sulla stampa