di Maurizio Bernardelli Curuz ed Elena Panzera
[D]enso di rinvii letterari e storici, ogni dipinto che rappresenta la tragica storia d’amore tra Enea e Didone rinvia ai motivi della necessità del Fato e all’impossibilità dell’uomo di sottrarsi alla responsabilità del proprio destino. Se Claude Lorrain mostra una scena di seraficità raffaellesca, immaginando, da Virgilio, La regina che mostra Cartagine al proprio amato (1675-1676), rinviando a un’idea di serenità olimpica e a una sconfinata promessa d’amore, un lavoro del più “raffaellita” Marcantonio Raimondi – fu incisore delle opere dell’Urbinate – raffigura il tormento del dramma, in una grafica che tanto sarebbe piaciuta ai surrealisti, per la sua natura intensamente onirica. Due modi, due canoni, due sequenze cambiano così il tenore della storia. Osserviamo con attenzione l’opera cristallina di Lorrain, poi spostiamo lo sguardo sull’incubo di Raimondi.
Due donne nude in primo piano, una città divorata dalle fiamme, personaggi inquietanti e barche nel porto, in movimento. Si è molto discusso attorno all’interpretazione di questa incisione. Ma una risposta può venire dalla letteratura. E in particolare dall’Eneide, anche se il soggetto viene poi a rappresentare un messaggio particolarmente veicolato dalla pittura dell’epoca. La necessaria vittoria della virtù e del dovere sulle dolcezze dell’amore.
Realizzata tra il 1506 e il 1508 da Marcantonio Raimondi (1480-1534) con la tecnica del bulino, la stampa è comunemente conosciuta con il nome di Sogno di Raffaello per un iniziale errore di attribuzione che la faceva risalire ad un disegno perduto del Sanzio, ed è tra le più enigmatiche stampe del ’500. Oggi si è tornati prudentemente sul supposto legame di derivazione da un dipinto di Giorgione, anch’esso perduto, per la vicinanza all’artista nello stile, nel senso di profondità dello spazio e nella ricchezza dei chiaroscuri.
Il tema è stato oggetto di numerosi studi: l’incisione descrive, come dicevamo, due figure di donne nude dormienti in primo piano alle quali si contrappone, oltre un corso d’acqua da cui fuoriescono animali ibridi dall’aspetto mostruoso, una suggestiva città in fiamme.
Siamo certo al centro di una materia onirica. Viviamo, grazie a Raimondi, un sogno. O meglio, la sua variante piena d’inquietudine. La composizione, in ogni sua parte, ci orienta alla rappresentazione degli incubi di Didone tratti dal poema virgiliano, in una sorta di complesso mélange sincronico di diversi momenti narrativi, come accadeva, del resto, in tanta pittura dell’epoca.
Sulla sinistra del foglio sono rappresentate la regina Didone e sua sorella Anna: il motivo della collocazione delle due donne, apparentemente tranquille, in un contesto angosciante, è dovuto all’accendersi della passione di Didone per l’eroe troiano Enea che, fin dall’inizio del libro quarto dell’Eneide, si illumina di luci sinistre ed è avvolta da presagi di lutto. I sogni della regina confessati alla sorella non lasciano dubbi sul loro contenuto terrorizzante: Anna soror, quae me suspensam insomnia terrent (IV, 9), dove terrent è tradotto con spaventare, impaurire, atterrire.
Amore tormentoso fin dal suo sorgere, dunque; e quando poi sfocia la passione che getta Dido nelle braccia di Enea, s’avvia la tragedia che porterà il troiano a scappare da lei a bordo dell’imbarcazione che vediamo allontanarsi al centro della scena, e che indurrà la regina a morire sul rogo che avvolge il palazzo: Ille dies primus leti primusque malorum causa fuit, quel giorno fu il primo passo alla morte, la causa prima dei mali (IV, 169-170).
Ma gli incubi minacciosi che torturano Didone, presagi di sventura veritieri e profetici, qui nella stampa di Raimondi raffigurati attraverso le figure inquietanti dei mostri che escono dall’acqua, vengono da lei inizialmente interpretati come un’esortazione a farsi proteggere da una minaccia occulta, e vede quindi in Enea un improbabile salvatore. A tal proposito c’è da ricordare che la regina è dolcemente avvelenata da Cupido; le risulta dunque impossibile bloccare la passione dell’eroe.
Nella tormentata sequenza dedicata alla rivelazione dell’innamoramento alla sorella Anna, il paragone con una cerva ferita da una freccia l’ha infatti assimilata ad un animale indifeso e braccato: Uritur infelix Dido totaque vagatur / urbe furens, qualis coniecta cerva sagitta (IV, 68-69). Il contesto della stampa rappresenterebbe quindi i turbamenti interiori di un animo in tempesta. Può l’amore travolgente trasformarsi in una dramma? Può un legame interrotto divenire motivo di contrasto politico-militare per generazioni e generazioni?
Occorre ora analizzare l’infernale complesso in fiamme sulla destra. Come detto, Didone morirà sul rogo, perché questo sacrificio avrà un valore purificatore, tanto a titolo privato – lavare la propria colpa d’infedeltà verso il defunto marito Sicheo – quanto a titolo pubblico – consentire alla collettività di ritrovare la pace dopo il periodo in cui la donna, distratta dall’amore, non ha svolto i propri doveri di regina -; le fiamme vendicatrici che avvolgeranno il palazzo sembrano abbracciare l’intera Cartagine, la futura nemica di Roma (“Crollasse Cartagine intera, o Tiro antica, e le fiamme ruggenti intorno ai tetti degli uomini, ai templi dei numi salissero”, IV, 669-671).
Le fiamme che avvolgono la città si rivelano pure presagio, ben più lungimirante, dell’odio fra Roma e Cartagine e delle guerre puniche, che finiranno col distruggere Cartago, come a significare che la maledizione tremenda di guerra eterna fra i due popoli, lanciata agli dei da Didone prima del suicidio, si ritorcerà infine contro la sua gente: “Chiedo questo, quest’ultima voce col mio sangue effondo. E voi, Tirii, per sempre la stirpe e tutta la razza tormentate con l’odio, queste inferie al mio cenere offrite. Nessun amore, mai, nessun patto tra i popoli. E sorgi, vendicatore, oh, dalle mie ossa, col ferro, col fuoco perseguita i coloni troiani, ora, poi, non importa: quando bastin le forze. I lidi ai lidi contrari, all’onde supplico l’onde, l’armi all’armi: essi e i nipoti combattano” (IV, 621-629).
Nell’ultimo atto della perorazione Didone ritorna sul registro patetico evocando, rivolta a se stessa, immagini di morte (moribunda), e di distruzione per la sua città (destruat, captam). Il lessico della passione ruota attorno ai campi semantici del fuoco bruciante (uritur/incensa) e del furor, che trasporta sul piano infero la figura di quella che fino a poco prima era una donna virtuosa.
Ecco allora che torna, come già in altre opere dello stesso periodo, l’immagine dell’inferno simbolizzato come città incendiata che, nella nostra incisione, è accentuata dalla barca nella laguna, la quale ricorda chiaramente l’iconografia della barca di Caronte. E, proprio a bordo dell’imbarcazione del traghettatore degli inferi, Enea nel sesto libro del poema scorgerà Didone fra le anime dei suicidi per amore, nei Campi del pianto.
Come riportato sopra, dunque, l’incisione si può considerare un collage sincronico di diversi momenti dell’Eneide, tesi confermata anche dalla figura sulle spalle di un’altra in fuga dal palazzo incendiato, esplicito rimando alla rappresentazione di Enea che fugge da Troia in fiamme con il padre Anchise sulle spalle, episodio narrato, questo, nel secondo libro del capolavoro virgiliano.
NEL FILMATO LA NOTTE DRAMMATICA DI DIDONE