E’ importante conoscere il luogo nel quale lo scultore vive e lavora. Qui sorregge la mia esperienza diretta, l’esperienza indimenticabile di un giorno di settembre a Sorrivoli. Sorrivoli è un piccolo borgo sulle prime colline cesenati. Poche antiche case, una chiesa, una rocca diruta e amorosamente restaurata. La Madonna del Monte è a poca distanza in linea d’aria. A est, dietro Longiano, si indovinano il mare e la scintillante tumultuosa riviera fra Cesenatico e Rimini. Tutto intorno c’è una campagna incredibilmente intatta; case coloniche ancora abitate da contadini veri, vigne, coltivi, appezzamenti di bosco, strade bianche, file di pioppi e di salici a segnare la linea del torrente in fondo alla valle. Quello che vediamo guardandoci intorno è uno dei miracoli italiani che ogni tanto abbiamo la fortuna di incontrare. Il paesaggio, in assoluto il più importante fra i nostri beni culturali, nell’ultimo mezzo secolo è stato offeso e devastato quasi ovunque. In Romagna forse più che altrove. Se sopravvive, sopravvive per segmenti disarticolati, pezzi avulsi dal contesto che per qualche ragione si sono salvati dall’ingordigia degli speculatori e dalla insipienza delle amministrazioni e che bisogna andare a cercare nelle valli interne, nelle pieghe del territorio.
Sorrivoli è uno di quei luoghi residuali che testimoniano la struggente “pasoliniana” bellezza dell’antica Italia rurale. Salite sulle mura della rocca e vedrete emergere, come per miracolo, nel giro d’orizzonte a trecentosessanta gradi – coprendo la linea delle colline il disordine urbanistico e l’assiepamento edilizio che pure dilagano a pochi chilometri di distanza – la Romagna di Pascoli e di Tonino Guerra. C’è, anche, vista di taglio sulla destra, l’“azzurra vision di San Marino”; ad assicurarci che questo intatto angolo di Paradiso è il “dolce paese” che ha ispirato alcune delle pagine più toccanti della nostra letteratura. A Sorrivoli c’è la casa-laboratorio di Ilario Fioravanti, edificio rurale aperto sulla valle e restaurato dallo stesso artista; un artista che non ha mai dimenticato di aver studiato architettura a Firenze negli anni di Leonardo Savioli e di Giovanni Michelucci. Ho ammirato la poetica sobrietà dell’intervento di ripristino, il rispetto per i materiali: la calda rugosità del cotto, la bellezza della pietra consumata dall’uso, il fascino dei vecchi intonaci, del legno antico che il contatto con le mani degli uomini ha reso prezioso. Mi ha colpito, perché è raro incontrarla anche negli architetti più sensibili, la sapiente ricerca di un agio tranquillo, allo stesso tempo povero e confortevole. Sotto il pergolato di vite in vista della campagna, con l’uva di fine estate già quasi matura, parlando con Fioravanti del Novecento, di artisti e di poeti, e quindi di Marino e di Sughi, di Guerra e di Baldini, ho capito che la sua casa, il suo laboratorio, lo stile stesso della sua vita, sono un’opera d’arte; un’opera d’arte che diresti in bilico fra letizia francescana e sagace eleganza intellettuale. L’età avanzata (lo scultore è nato nel 1922) è uno zenith, un punto apicale, un belvedere sulla vita se la vita è stata bella. Quella di Ilario Fioravanti lo è stata.
Lo immagino mentre nell’osservatorio privilegiato di Sorrivoli, i ricordi portano a Fioravanti il rumore del secolo breve da lui attraversato con cuore caldo e mente serena. Cose come queste mi accadde di pensare, quel giorno di settembre, sotto il pergolato aperto sulla campagna, mentre parlavo con lui di artisti e di poeti, di tecniche, di saperi e di mestieri, delle opere e dei giorni dello scultore, della piccola patria romagnola e di quella immensa e meravigliosa patria che è il mondo senza confini delle arti. Ma ora è il momento di parlare delle opere. Perché come l’albero – dice il Vangelo – si riconosce dai frutti, così è attraverso le cose uscite dalle sue mani che l’artista deve essere conosciuto e valutato. Questa grande monografica organizzata da Marisa Zattini, voluta e promossa dalla Fondazione della Cassa di Risparmio di Cesena congiuntamente all’Amministrazione comunale, è popolosa e sontuosa. A Cesena c’è tutto Ilario Fioravanti; lo scultore che finora abbiamo incontrato per antologie, per frammenti, per illuminazioni. Dagli alti cieli della Mitologia, della Sacra Scrittura, del Nuovo Testamento scendono sulla terra per diventare figura i Minotauri e le Parche, le Betsabee e le Giuditte, Salomè con la testa del Battista e Lot con le figlie, il bacio di Giuda e la Veronica, san Luca che dipinge la Vergine e nostro Signore che moltiplica i pani e i pesci. In una specie di fraterna contaminazione (l’immaginario poetico di Fioravanti assomiglia al Presepio dove tutti possono stare con tutti) i personaggi del Mito e della Rivelazione si accompagnano ai protagonisti del Novecento (Magritte, Giacometti, Marino Marini, anche Louis Armstrong, anche l’amatissimo Pablo Picasso visto a Parigi e mai dimenticato) e alle tante creature che fanno bello e iridescente lo spettacolo del mondo: donne, bambini, ragazze di vita, clown, saltimbanchi. A volte sacro e profano – i cieli alti della Redenzione e la umile vita della piazza e della strada – convivono nella stessa opera.
C’è una composizione monumentale – nove figure a tutto tondo e in scala al vero – che io ho voluto fortemente in mostra perché la considero un assoluto capolavoro. Compianto laico si chiama e ripropone, cinque secoli dopo, le sacre rappresentazioni in terracotta policroma di Niccolò dell’Arca e di Guido Mazzoni. Al centro di un vasto emiciclo c’è il Cristo morto, disteso e irrigidito come nei Sepolcri della devozione popolare. Tutto intorno, a piangere l’Amato, ci sono donne di strada, di quelle che d’estate popolano i viali a mare della Riviera fra Cesenatico e Rimini. Come in un offertorio, portano al “Corpus Christi” il loro dolore insieme alla iconografia del loro mestiere: minigonne, stivali, scollature vertiginose, trucchi iperbolici, borsette, cinture, catene. Di fronte a questa grande invenzione di Fioravanti, uomo di profonda e salda fede, a me è venuto in mente il Vangelo là dove dice che i pubblicani e le puttane ci precederanno nel Regno dei Cieli. “Ha Fioravanti della vita un sentimento così terragnamente, così pienamente, così irreparabilmente cristiano… da lasciare oggi come oggi interdetti” scriveva Testori nel 1989. Il cristianesimo “irreparabile” dello scultore si esprime nella scelta figurativa, prima di tutto.
Il Novecento di Auschwitz e di Hiroshima ha tentato di esorcizzare, di negare l’immagine dell’uomo oppure l’ha deformata, lacerata, contraddetta. La bellissima mostra di Jean Clair alla Biennale veneziana del ’95 ha dimostrato tutto questo in maniera eloquente. Fioravanti, al contrario, onora il volto e il corpo dell’uomo e della donna, perché sa che sono fatti a immagine e somiglianza di Dio. L’immagine dell’uomo è qualcosa di sacro, si tratti della Putaska o del Clown con piffero, del Ragazzino con lo storione o della Donna che si sveste, compiaciuta delle sue forme prosperose. L’imago hominis è sacra, va trattata con rispetto e con affetto perché siamo tutti fratelli sotto il cielo. Ciò non vuol dire tuttavia che non si possa scherzare sulle sembianze e sulle situazioni nostre e di ognuno. Anche su quelle della Storia e del Mito si può scherzare. In fondo anche Dio ha sorriso, il settimo giorno, quando ha visto squadernato davanti agli occhi il meraviglioso e indicibilmente divertente spettacolo del mondo. Girate attraverso le sculture policrome di Fioravanti, fermatevi di fronte alle zingare e alle Cleopatre, alle Veroniche e ai Minotauri, ai giocolieri e alle ragazze di vita e vi sembrerà di essere saliti su Intercity, l’ultimo poemetto in dialetto romagnolo di Baldini. C’è stupore, c’è affettuoso divertimento, c’è gioia di essere vivi e di avere occhi per guardare e mani per plasticare e per colorare, c’è gratitudine verso nostro Signore che ha fatto una umanità così variegata e così sorprendente. Tutto questo è presente nelle sculture di Ilario Fioravanti e tutto questo – direbbe Testori – è spirito irreparabilmente, terragnamente cristiano. Anzi cattolico, aggiungo io. Lo scultore che Cesena, sua patria, onora in questo inverno 2008 con una monografica imponente, è un uomo colto. E’ architetto, ha conosciuto e frequentato i grandi del Novecento, ha letto i libri che andavano letti e visto le mostre che andavano viste.
Un così saldo e strutturato patrimonio di dottrina e di esperienze poteva sortire effetti negativi, poteva fare da filtro alla freschezza sorgiva dell’invenzione, mettere piombo nelle ali. Invece questo non è accaduto. Con la sapienza del giocoliere, con il limpido entusiasmo di un ragazzo, lo scultore ha attraversato Giacometti e Marini, Arturo Martini e Carrà, Picasso e Brancusi, traendo da loro, come dai suoi amici letterati e poeti, il meglio che potevano dare. Mai si è dato tuttavia (questa mostra sta lì a dimostrarlo) che quei modelli facessero velo o, peggio, condizionassero la sua identità espressiva. Ciò dipende – io credo – dal fatto che Ilario Fioravanti possiede un talento speciale, un dono raro e prezioso che Dio concede a pochi. Sa guardare il mondo, se stesso e la storia, con occhi puri. L’ho capito quel giorno di settembre a Sorrivoli.
Ilario Fioravanti –
Pubblichiamo un ampio stralcio del testo critico di Antonio Paolucci per la mostra Ilario Fioravanti. Il destino di un “Uomo” nell’Arte