Impressionismo: oltre la Francia, in Europa

Gli autori che hanno aderito a questo movimento in nazioni diverse dalla francese, spesso ingiustamente trascurati, offrono invece, secondo Renato Barilli, "linguaggi robusti, compromessi con la scena quotidiana, per nulla convinti che sulla tela si dovessero nascondere gli esseri umani per lasciar parlare solo le frasche o le erbe agitate dal vento" - In mostra a Brescia le opere di venticinque artisti tedeschi, inglesi, olandesi, scandinavi, russi e spagnoli.


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Renato Barilli – intervistato da “Stile” – è stato l curatore della mostra “Impressionismi in Europa”

impre51Professore, i suoi studi hanno evidenziato altre linee, nella costellazione impressionista, che non fanno esclusivamente capo a Monet. La critica, generalmente, ha teso a leggere in modo univoco il fenomeno impressionista, facendone quasi una scuola, anziché un insieme di ceppi di lingua pittorica con diverse varianti. Così si privilegia la Francia, così si privilegia il pur geniale Monet. Cosa accadde in realtà in quegli anni? Quali erano le tendenze diverse, pur in ambiti contigui?

La mostra da me proposta e diretta intende sostenere che è parziale e riduttivo riportare l’Impressionismo alla sola arte di Monet, anche se si tratta certamente di un grande pittore. Ma per inseguire meglio i giochi delle “impressioni” l’artista francese è venuto escludendo progressivamente la presenza umana dalle sue tele. Basti pensare alla serie delle “Ninfee”, in cui appunto non c’è traccia di una partecipazione antropologica. Su questa strada, in definitiva, l’ha seguito, in Francia, il solo Sisley, e all’estero, la caterva di paesaggisti sfatti, dispersi nell’atmosferismo, che mi sono guardato bene dall’includere nella mostra. Il discorso cambia già se pensiamo a Pissarro, in cui c’è quasi sempre la comparsa dell’aneddoto, della robusta scena di vita contadina, discendente dal grande esempio di Millet. Renoir, poi, si è specializzato proprio in quel genere del ritratto che Monet ha toccato poco e con una debolezza congenita. Se poi parliamo di Manet, di Degas, di Caillebotte, questi erano superbi impaginatori di azioni umane. In linea generale, gli impressionisti validi degli altri Paesi si sono mossi in questo senso, hanno accolto tutti, cioè, l’obbligo di registrare gli effetti della luce atmosferica, e i suoi cangiantismi nel corso delle ore della giornata, delle stagioni, delle condizioni meteorologiche, ma non studiandoli in una sorta di palcoscenico vuoto, bensì nel pieno di una recitazione umana intensa e carica. E’ vero che ciò ha dato talvolta l’adito a cadute appunto nell’aneddotismo, o nel patetismo, o nel sociologismo, ma ben vengano questi rischi, se confrontati con lo svuotamento progressivo causato dalla linea monettiana. E dunque, gli Impressionismi dei Paesi diversi dalla Francia, in genere, ci offrono linguaggi robusti, variamente compromessi con la scena quotidiana, per nulla convinti che si dovesse suonare una sorta di sirena d’allarme per costringere gli esseri umani a chiamarsi fuori, ad andarsi a nascondere, per lasciar parlare solo le frasche o le erbe agitate dal vento. I venticinque artisti inseriti nella mostra affrontano ciascuno una precisa problematica sociale, anche se studiata pur sempre a partire da un’immersione ambientale, senza di che non si potrebbe parlare di impressionismo.

E’ possibile tracciare una mappa delle modalità di sviluppo della pittura impressionista nei Paesi da lei esplorati?
Poiché i venticinque artisti prescelti sono nati in date diverse, la mostra distingue quattro ondate, di cui la prima è costituita dai pionieri, da coloro che nascono un po’ prima di Monet, o più o meno nei suoi stessi anni, e che in genere non hanno certo aspettato la mostra del ’74 presso Nadar, in cui apparve il celebre dipinto monettiano “Impression: soleil levant”, da cui è venuta l’etichetta dell’intero movimento. Si tratta dei tedeschi Menzel e Leibl, degli spagnoli Fortuny e Beruete, dell’olandese Mauve, del russo Repin.
E le sezioni successive?



Vi è quella che potremmo definire come sezione centrale della mostra. Presenta coloro che nascono circa un decennio dopo Monet e che, come già detto, non ne accettano certo l’influsso riduttivo, ma seguono ancora le orme di Millet o di Courbet, o di Manet e Degas, nel proporre un discorso ampio e robusto, dominato dalla presenza umana, seppure stemperata da un’immersione atmosferica. Si tratta degli inglesi Clausen e La Thangue, dei tedeschi Liebermann, Thoma, Truebner, Uhde, dei russi Korovin e Serov. Una “sezione nella sezione” è costituita da alcuni artisti che si specializzarono nel ritratto mondano, come il tedesco Lenbach e l’inglese Lavery.
La mostra propone quindi le opere di artisti cronologicamente situati ancora piùin avanti nel tempo…
Certo. Ci sono coloro che nascono tra il ’50 e il ‘60, quando già si profilano all’orizzonte dei movimenti che tendono a scavalcare l’Impressionismo, con la sua dipendenza troppo stretta ai dati di natura, e già esplorano linguaggi arditi e sintetici, volti all’astrazione. Ma c’è anche chi affonda ancor più nell’Impressionismo, magari rendendolo particolarmente vibrante ed evanescente, sul punto di disciogliersi. Sono gli inglesi Steer e Sickert, il tedesco Corinth, gli olandesi Breitner e Isaac Israels. O invece altri che sentono che sta per svilupparsi senza limiti l’impero dell’immagine esatta prodotta con la fotografia, e tentano allora di resistere, adottando una pittura meticolosa ed esatta, “più vera del vero”. Sono questi da una parte taluni scandinavi, come Zorn e Krohg, da un’altra un meridionale, lo spagnolo Sorolla, purtroppo destinati a essere dimenticati, dato che il Novecento avrebbe puntato in prevalenza sui processi astrattivi. Ma nell’enorme panoplia degli stili del secolo scorso trovano posto anche i vari iperrealismi; comunque la fotografia ha acquisito un peso enorme, e dunque rinasce di continuo un “combattimento per un’immagine” tra lo strumento tecnico e l’antico pennello della tradizione pittorica.
E per quanto riguarda l’Italia?
L’Impressionismo, da noi, sembrerebbe arrivato in seconda battuta. Molto probabilmente l’Italia aveva già scelto una propria strada, quella intrapresa dai Macchiaioli, con una pittura più corposa e compatta eppure attenta al valore della luce. In questa complessa trama di motivi i pittori italiani del secondo Ottocento ebbero una parte importante, e se non li si è messi in mostra, è stato proprio per non applicare anche a loro i criteri altamente selettivi che invece è stato possibile adottare nel caso degli stranieri, assai meno noti presso di noi: cosicché nel loro caso può essere accettabile un primo approccio, in attesa di approfondimenti ulteriori, laddove un simile criterio sintetico non sarebbe risultato ammissibile per i nostri.

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Redazione
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Stile Arte è una pubblicazione che si occupa di arte e di archeologia, con cronache approfondite o studi autonomi. E' stata fondata nel 1995 da Maurizio Bernardelli Curuz, prima come pubblicazione cartacea, poi, dal 2012, come portale on line. E' registrata al Tribunale di Brescia, secondo la legge italiana sulla stampa