di Maurizio Bernardelli Curuz
Nel corso delle indagini sulla cripto-pittura, a partire da Leonardo fino a Caravaggio, ho effettuato alcuni prelievi di riscontro sulla pittura ottocentesca di matrice non realista, ma orientata – com’è quella di Van Gogh, a partire dall’esperienza di Arles – in direzione di una sintesi, che recupera il simbolismo e getta un ponte in direzione dell’espressionismo pieno.
La verifica consente di portare alla luce il motore anti-realistico dei cieli vangoghiani del periodo estremo, soprattutto negli ultimi due anni di vita del pittore. Il cielo è mosso da figure deformate e inserite in gorghi, spirali assolutamente non casuali. La composizione dei cieli animati, costituisce un precedente preciso rispetto alla pittura di Munch, che evidentemente aveva pienamente colto questa dinamica delle figure deformate, tra le nubi, tornata, per noi, occulta, durante il Novecento. L’evidenza di questo aspetto inedito getta una nuova luce, più diretta e incisiva, sul rapporto, tra Van Gogh e Munch.
Van Gogh utilizza la stessa partitura dei maestri antichi
individuando una sottotraccia, un soffio di eterno o di nostalgia, che sta nelle vibrazioni di una materia sommossa dai grandi spiriti che albergano nel paesaggio.
Se in Gauguin la materia spirituale appare con assoluta evidenza, sul piano del presente, in Van Gogh essa si dissimula, come avviene nell’arte cinquecentesca, impastandosi con l’umidità e il fango, ma suggerendo un soffio vitale emanato da una radicata presenza del Dio, inteso come motore affettuoso del mondo e come padre e madre. Soprattutto Van Gogh, torce e scolpisce figure nella levità delle nubi, che vengono concepite e rifinite non attraverso una descrizione mimetica, ma come esse possono apparire nella trasfigurazione. Le radiografie delle opere confermano l’esistenza, negli strati inferiori dei dipinti – tra i quali segnalo il Campo con cipressi del Met di New York e le due redazioni contemporanee – figure molto ben definite e scene attente a un ricordo che sta tra la definizione di lacerti d’immagini familiari – la madre e i bambini, l’uomo e la donna, colti sempre in momenti lievi, dilatati verso l’eterno – e la pittura religiosa. A livello radiografico, l’impianto strutturale sottostante al dipinto, permette di rilevare la coincidenza tra l’immagine dei cipressi e la sottostante figura di donna con angelo, che pare rievocare la struttura dell’Annunciazione di Lorenzo Lotto.
Non abbozzi di quadri non finiti e coperti da un nuovo dipinto, ma effettive presenze di una forte struttura sottostante, che viene rastremata con i tocchi e gli impasti di superficie. In fondo, questa è la differenza tra un paesaggio fotografico e un paesaggio dipinto, all’epoca di Van Gogh. E’ l’atto interpretativo e proiettivo – che è un fenomeno psicologico e culturale – ad animare il paesaggio dipinto, a conferirgli quella percezione umana, che riproduce l’effetto dei sensi; suoni, ronzii, foglie che stormiscono al vento, profumi, angoli caldi muri tiepidi e ombre umide e nubi che si uniscono e si dissolvono come schiume, quasi crepitando, nella vasca ribaltata del cielo. Un rapporto tra l’anima e il mondo, che non può passare inosservato, osservando Il campo di olivi, da un punto distante e con una rotazione di 90 gradi. Qui Van Gogh potrebbe essere partito persino da un autoritratto, giungendo a riempirlo con figure minori, come dimostra l’immagine, qui sotto.
La critica di matrice psicologica potrà vedere, in queste proiezioni antropomorfiche delle nuvole – orientate, in Van Gogh, al ricordo di tenerezze materne – un desiderio di ritorno all’infanzia e alla prodigiosa bellezza d’essere amati e un’attenzione quasi allucinata – peraltro giustificata dagli esempi di chiaroveggenza della pittura antica – nei confronti delle voci e delle figure suggerite dall’inconscio all’interno di paesaggi percossi dal vento e resi eloquenti, nei minimi sussulti e singhiozzi, da un’estrema solitudine. La religiosità di Van Gogh sembra trovare lo sbocco di una sorta di formula autorizzata, in pittura, in seguito allo studio di Delacroix, di Puvis de Chavannes, dei paesaggi spirituali giapponesi – che egli cita, nelle nubi, ruotando il quadro di 180 gradi nel Campo di grano con cipressi, come in una delicata ceramica orientale (qui sotto)
ma emerge soprattutto da un confronto serrato con Gauguin che, evidentemente, induce il collega a un’osservazione della materia spirituale che si affaccia, al di là della solida e impastata facciata della natura, impregnandosi di essa. Materia e spirito procedono unite – quanto nei neoplatonici – tra levità, deformazione e finitura della macchia da cui si dipanano. Macchia, intesa nel senso più semplice e comune del termine. Come, peraltro la intendeva Leonardo. Una macchia dinamica, posta in finitura da inequivocabili tracce che ne definiscono la forma.
Inedito. Cosa contengono le nubi di Van Gogh? Figure, madri, Madonne. E non solo questo…
La verifica consente di portare alla luce il motore anti-realistico dei cieli vangoghiani del periodo estremo, soprattutto negli ultimi due anni di vita del pittore. Il cielo è mosso da figure deformate e inserite in gorghi, spirali assolutamente non casuali- La composizione dei cieli animati, costituisce un precedente preciso della pittura di Munch, che evidentemente aveva pienamente colto questa dinamica delle figure deformate, tra le nubi, tornata, per noi, occulta, durante il Novecento. L'evidenza di questo aspetto inedito getta una nuova luce, più diretta e incisiva, sul rapporto, tra Van Gogh e Munch