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di Federico Bernardelli Curuz
[A]nche un mostro sacro della pittura come Francisco Goya per una volta si è dovuto accontentare del secondo posto. E’ proprio ciò che è avvenuto al concorso tenutosi nel 1771 all’Accademia di Parma. Il pittore spagnolo si trovava in Italia, e più precisamente a Roma, per studiare le antiche bellezze artistiche, e decise di inviare l’opera da sottoporre a giudizio nella città emiliana. Reduce già da alcune delusioni, avendo partecipato appunto per due volte al concorso dell’accademia di San Fernando a Madrid, sceglie Parma poiché, essendo la città collocata sotto l’influenza borbonica – “l’alto patrocinio” era infatti di competenza del duca Ferdinando, nipote del re Carlo III -, ed essendo i suoi concorsi tra i più ambiti in tutta Italia, una eventuale vittoria avrebbe raggiunto con una forte eco anche il territorio iberico. Francisco Goya assegnò grande importanza alla creazione dell’opera, dimostrata dall’esistenza – come riferisce Simona Tosini Pizzetti in Goya e la tradizione italiana, Silvana Editoriale – “di ben due bozzetti, uno dei quali curatissimo, ora al Museo di Saragozza, dei disegni preparatori presenti sul Cuaderno italiano (ben cinque, tra i quali uno studio per la testa di Annibale e del Genio, ndr), due rapidi schizzi a sanguigna, e dalla radiografia che mostra parecchi pentimenti”.
Il tema dell’opera, legato al mondo classico, in voga in quegli anni, viene presentato dall’abate Innocenzo Frugoni, segretario dell’accademia di Parma fino al 1768, in un suo sonetto: “Vorrebesi ategiato Annibale in tal guisa, che alzandosi la visiera dell’elmeto e volgendosi ad un Genio, che lo prende per la mano, accennase da lungo le belle Campagne della suggeta Italia, e dagli occhi, e da tutto il volto l’interna gioia gli trapelasse, e la nobile fiducia delle vicine vittorie”. Il dipinto sconfitto, che Goya intitola “Annibale vincitore, che rimira per la prima volta dalle Alpi l’Italia”, testimonia il grande talento, forse ancora acerbo, e la potenza espressiva che caratterizzeranno la produzione artistica di Goya.
Annibale appare nel mezzo della scena – illuminato da un bagliore quasi accecante – affiancato da un angelo e da un cavaliere; mentre ai suoi piedi la figura di un minotauro, simboleggiante il fiume Po lo osserva. Il condottiero osserva il “Bel Paese” e alle sue spalle sfila una lunga processione di soldati al di sopra dei quali si scorge il carro della vittoria. L’atmosfera irreale che pervade l’opera è ottenuta utilizzando toni freddi: il grigio e l’azzurro delle armature e degli elmi, e il viola delle nubi e dello sfondo. Alle spalle del protagonista sfila una lunga schiera di soldati; solo la figura del uomo dalla testa di toro viene accesa da toni caldi, fornendo a Goya – secondo Simona Tosini Pizzetti – “il pretesto per mettersi alla prova nella rappresentazione di un torso muscoloso, sulla falsa riga dei disegni presenti sul Cuaderno italiano”.
L’esito della competizione non è favorevole al venticinquenne spagnolo, che ottiene sei voti dalla giuria e un giudizio che recita: “Vi si è osservato con piacere un maneggio facile di pennello, una calda espressione del volto, e nell’attitudine di Annibale un carattere grandioso, e se più al vero s’accostassero le sue tinte, e la sua composizione all’argomento, avrebbe messo in dubbio la palma riportata dal primo”. Il primo tra gli undici partecipanti fu un certo Paolo Borroni (1749-1819), pittore modesto e oggi praticamente sconosciuto, con il suo Il Genio della guerra guida Annibale attraverso le Alpi.
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