di Enrico Giustacchini
Riproponiamo una storica intervista di Stile Arte a Trento Longaretti. L’artista nacque a Treviglio (Bergamo) nel 1916. Direttore dell’Accademia Carrara dal 1953 al 1978, ha partecipato alle maggiori rassegne espositive italiane, tra cui la Biennale di Venezia (per quattro volte) e la Quadriennale di Roma. Una sua personale è stata allestita nel 1999 al Palazzo delle Nazioni Unite, sotto l’egida dell’Onu. Opere di Longaretti sono conservate nei Musei vaticani, nella Basilica di Sant’Ambrogio e nel Duomo di Milano, alla Pinacoteca Carrara di Bergamo, al Museo d’Arte moderna di Basilea. L’attività del maestro lombardo prosegui tuttora intensamente fino alla morte, con intense personali, antologiche e retrospettive.
Trento Longaretti irradia la mitezza, il candore, la disarmante modestia dei grandi. Ricorda, in questo (gli diciamo) l’amico Ermanno Olmi.
Ermanno mi ha confessato una volta che, ragazzo, osservando i miei quadri esposti nella vetrina d’un negozio di Treviglio aveva deciso che da grande avrebbe fatto il pittore.
In un certo senso, Olmi ha realizzato questo suo desiderio. Pensiamo alla struttura, ai riferimenti iconici dei suoi film, per esempio, del recente, pluripremiato “Mestiere delle armi”…
E’ vero, possiamo dire che lui dipinge con il cinema. Ma ci accomuna anche la scelta di campo, dalla parte degli umili, che io racconto nei miei dipinti come lui ha fatto, splendidamente, nell’“Albero degli zoccoli”.
Ma veniamo a lei, maestro. Come inizia la sua carriera?
Fin da ragazzino avevo rivelato talento nel disegnare. Mi iscrissi a Brera, dove frequentai prima il Liceo artistico, poi l’Accademia. Qui avvenne l’incontro, fondamentale, con Aldo Carpi: maestro di vita, prima ancora che di pittura. Presto diventammo amici: lui, io, ed alcuni dei miei compagni di corso, che rispondevano ai nomi di Cassinari, Morlotti, Bergolli, Kodra, per non citarne che alcuni. Fu un periodo straordinario, di enorme fermento. Carpi – che aveva per assistente un bravo artista oggi purtroppo dimenticato, il bresciano Felice Antonio Filippini, autore di strepitose nature morte d’influsso morandiano – ci correggeva pochissimo. Più intellettuale che tecnico, riuscì a instillare in noi quel concetto di libertà della pittura che ciascuno di noi avrebbe poi portato con sé come preziosa eredità lungo il proprio cammino creativo, sviluppatosi per strade diverse (e che ho cercato di far mio anche quando, per un quarto di secolo, dal 1953 al 1978, ho diretto l’Accademia Carrara).
Gli anni di Brera erano pure gli anni di “Corrente”…
“Corrente” io l’ho seguita, in verità, un po’ dall’esterno. Di giorno stavo con quegli artisti a Milano, la sera prendevo il treno e tornavo in provincia. Non ho fatto parte direttamente del movimento, ma certo ne ho subito l’atmosfera (mi sentivo, in particolare, vicino a personalità come Birolli e Sassu). In ogni caso, tutti noi eravamo lontanissimi dalla pittura di regime.
Del resto, lei ha sempre rivendicato con orgoglio la propria “indipendenza”.
Sì’, mi considero – pur fra le numerose frequentazioni – un “isolato” nel panorama artistico italiano. Ricordo le affettuose, ma accese discussioni con il caro Morlotti… o le polemiche su certo astrattismo, quando arrivai a dipingere in una natura morta – era il 1940 – il “Kn” (quello che era considerato, appunto, il “vangelo” degli astrattisti) poggiato su una sedia molto vangoghiana e sovrastato da una candela.
Poi arrivò, come bufera travolgente, la guerra.
Durante la guerra ho potuto, per fortuna, continuare a dipingere. Anche dal fronte. Affidavo alla tela immagini “proibite”, drammatiche testimonianze, come quelle dei villaggi albanesi rasi al suolo dalle nostre truppe.
Questo ci introduce ad una delle costanti – dal punto di vista contenutistico, di messaggio etico – della sua produzione: la pietà, la condivisione delle sofferenze dell’uomo.
Sì, dice bene: condivisione. O “Con-passione”, per usare il titolo di una mia mostra. Io non provengo da una famiglia povera, non ho mai conosciuto la vera povertà. Tuttavia, la mia simpatia va agli ultimi. E’ sempre stato così. Certo, qui conta molto la fede. Io sono religioso, guardo al Vangelo come fonte di verità. Credo, insomma, in questa grande utopia. Ma detesto il populismo.
Pietà, dunque. Ma gli umili che lei ha elevato a protagonisti delle sue rappresentazioni conservano, nella miseria, una loro dignità. La speranza li accompagna sempre, come l’occhio spalancato di un Dio benevolo.
Sono feriti, forse un po’ rassegnati: disperati, questo mai. Non racconto l’esplosione della tragedia. Le mie figure non sono contorte: raccolte, semmai. Come i contadini bergamaschi dell’“Albero degli zoccoli”.
Figure raccolte, figure essenziali. Quella corsiva – seppur sapiente – essenzialità di tratto che distingue i suoi personaggi, entro una inconfondibile cifra stilistica, si contrappone alla definizione in una chiave quasi fiabesca – e comunque di grande inventiva – d’un paesaggio che si fa suggestivo impianto scenografico.
Mettiamola così: voglio che l’uomo, nei miei quadri, sia ben visibile, ben riferibile. Voglio che se ne colgano con immediatezza la presenza e la funzione. Al contrario, al paesaggio – che all’uomo sta attorno – affido il ruolo di espressione di libertà, di fantasia. Di poesia. Cerco quel frammento di irrealtà che pervade il mondo e ciascuno di noi. Che ci fa vedere tre lune insieme nel cielo, o il sole e la luna affiancati. Un certo realismo grigio, quasi fotografico non mi appartiene. Credo ad un realismo “poetico”.
“Realismo poetico”: una definizione appropriata per la sua pittura. Qualche critico ne ha suggerito un’altra: “espressionismo lirico”. Si sente di condividerla?
Effettivamente, talvolta le mie forme sono abbastanza espressionistiche. Mai, però, nella connotazione tragica propria, poniamo, della scuola tedesca. Io mi sento più in sintonia con la lezione mitteleuropea: ravvisabile nelle linee un po’ mosse di alcune mie opere, assai lontane, per esempio, dalla tradizione lombarda, ma dove non manca mai un fondo di dolcezza.
Maestro, nei suoi quadri è frequente il ricorso al tema del viaggio, con tutte le ricadute simboliche che esso comporta. Vuole dirci qualcosa in proposito?
E’ mezzo secolo che dipingo viandanti. Figure inclinate, obliquamente tese in avanti, inquieti errabondi in cerca di chissà quale meta. Il viaggio può essere, di volta in volta, fuga dal dolore – questione sempre di tragica attualità, come ci confermano le cronache quotidiane – o individuale arrovellarsi verso nuovi orizzonti, nuovi significati. Il viaggio è poi metafora dell’esistenza di ciascuno di noi: un viaggio purtroppo breve, ma denso di fascino e – per chi è credente – anticamera di un’altra vita.