di Enrico Giustacchini
[J]oseph Wright of Derby ha lungamente, appassionatamente amato la Scienza. E lungamente, appassionatamente, ha creduto nel Pensiero positivo, nell’inarrestabilità gioiosa del Progresso umano, nel canto stentoreo delle macchine industriali.
Ha dipinto le meravigliose avventure dell’astronomia, della fisica e della chimica: planetari complicati come tele di ragno, pompe che risucchiano l’aria alla ricerca dell’assolutezza del nulla, sconosciuti elementi imprigionati in alambicchi che ne effondono la luminosità bianchissima e raggelata.
Si è fatto guidare, nella sua ottimistica crociera di pittore di successo, da una luce minore, e non meno fascinosa: la luce artificiale. In tutte le declinazioni: quella che violenta la tenebra di una miniera, di un’officina, di un laboratorio con lampi rabidi o soffusi bagliori; quella che fa esplodere una notte romana – non poteva mancare, per un artista inglese del tempo, l’esperienza del Grand Tour, con tappa obbligata all’Urbe – nello sfavillio crepitante d’uno spettacolo pirotecnico.
Poi, negli ultimi anni di vita, Wright pare acquietarsi un poco. Respira più profondo, guarda più lontano. Forse è anche un tantino disilluso. Talvolta dimentica la frenesia d’un mondo inesausto e incontentabile e si smarrisce con la mente ed il cuore entro paesaggi diversi, praterie sconfinate, montagne rocciose che salgono alle nuvole.
Sopra una di queste montagne, una giovane vedova indiana ricambia la sua malinconia. E’ seduta ai piedi d’un albero spoglio, da cui pendono le armi e gli indumenti del compagno, che ora non è più, e cavalca nei pascoli del cielo: la pelle di bisonte, il tomahawk, la faretra dalle frecce infallibili. La vedova appoggia il volto alla mano. Le ombre oscure del cielo s’infiammano per una luce che certo non proviene dagli uomini.