a cura di Caterina Stringhetta in sinergia con www.theartpostblog.com
[Q]uella di quest’anno è una Biennale complessa. Si tratta dell’ edizione n. 56 della Biennale d’Arte di Venezia e arriva esattamente a distanza di 120 anni dalla prima edizione (1895) e per la prima volta il curatore proviene dal continente africano.
Un’edizione che parla tutte le lingue del mondo e riflette sul rapporto che l’arte deve instaurare con il mondo e con una realtà fatta di una miriade di sfaccettature diverse.
La prima impressione è quella di una Biennale frammentata, in cui il mondo sembra parlare contemporaneamente di tante cose e in cui è difficile distinguere i concetti di ciascuno.
Okwui Enwezor, il curatore, si è già distinto come direttore della Haus der Kunst di Monaco di Baviera e come curatore di Documenta a Kassel nel 2002, ma a Venezia spiazza tutti invitando 136 artisti provenienti da 53 nazioni per dare vita alla mostra centrale di tutta la Biennale che ha come titolo “All the world’s future”.
Tutti i futuri del mondo di Okwui sono fatti di conflitti, di un capitalismo ormai decaduto, di tragedie di migranti di ieri e di oggi, di una natura violentata e violenta, di ribellioni e di oscuri presagi, di speranza per un futuro migliore e di poesia, di resurrezione e di musica.
Non si tratta di una Biennale allegra questo è certo e confesso che durante il terzo giorno di visita mi sentivo un po’ oppressa da tutte le problematiche e riflessioni proposte dagli artisti presenti.
Ad un certo punto ho anche provato nostalgia per l’edizione precedente e che, al contrario di questa, sembrava sprizzare gioia e felicità. Tuttavia, questa Biennale ha dei lati positivi e dei motivi validi per andare a vederla ci sono.
Innanzi tutto i messaggi lanciati sono forti e costringono a pensare a ciò che succede nel mondo. Forse è la prima volta che la Biennale è davvero mondiale, perché lascia spazio ad artisti che provengono da continenti da dove non sembrano provenire delle proposte culturali importanti (ad esempio l’Africa), pertanto questa è secondo me la prima Biennale veramente multiculturale.
La maggior parte degli artisti sembra lanciare un appello alla libertà e alla giustizia e il fatto che il cuore della mostra ai Giardini sia la lettura del “Capitale” di Marx (1867) rafforza questo messaggio che parte da Venezia per raggiungere gli angoli più remoti del mondo.
Il Capitale di Karl Marx sembra per certi versi l’origine di tutti i drammi del mondo contemporaneo, ma per altri aspetti sembra essere la soluzione a tutte le contraddizioni che viviamo.
Questo credo sia il motivo per cui ho vissuto questa Biennale con fatica, perché rappresenta esattamente i tempi in cui viviamo e che sono per loro natura frammentati e complessi da decifrare.
Se la Biennale di due anni fa raccontava il passato, quella di quest’anno ci mostra il presente … in attesa che la prossima ci faccia vedere il futuro.