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1945-1953: otto anni di attività creativa febbrile, magmatica, convulsa, dagli esiti contraddittori. Con L’Italia s’è desta, il Mar dedicò una mostra all’arte italiana dell’immediato dopoguerra, gremita di correnti eterogenee per linguaggio espressivo ed intento comunicativo e spesso in aperto antagonismo tra loro.
Le opere di Fontana, Burri, Guttuso, Afro, Leoncillo, Turcato, Baj e dei principali esponenti dei movimenti fondati in quegli anni, poste in rapporto dialettico con quelle dei maestri che si erano affermati prima del conflitto, come De Chirico, De Pisis, Balla, Carrà, Morandi… E’ il racconto di un cambiamento radicale, della ricerca di nuovi paradigmi, dell’esigenza di sconfessare la tradizione antecedente.
Stile ha intervistato Claudio Spadoni, curatore.
Come si presenta il panorama artistico italiano nell’immediato dopoguerra?
Gli artisti più giovani avvertono l’urgenza di recidere il legame con il passato recente e la cultura di regime, recuperando il rapporto con l’Europa. Si riscoprono le avanguardie storiche, Futurismo compreso, e si stabilisce un dialogo intenso e paritario con i paesi d’oltralpe. La chiusura autarchica in cui si erano trincerati i pittori prima della guerra si dissolve, lasciando emergere nuove correnti, diverse nell’approccio alla materia, nel contenuto e nei modi espressivi, e in rapporto conflittuale le une con le altre: Forma Uno, Corrente, Mac, Gruppo degli Otto, Fronte Nuovo delle Arti, solo per citarne alcune.
Molti artisti tentano di assurgere a livelli internazionali attingendo alla lezione cubista di Braque e Picasso…
Guernica è l’esempio cui guardare: l’audacia della composizione, emblema di un’efferatezza che si sarebbe acuita con lo scoppio del secondo conflitto mondiale, fa sì che divenga il grande studio del tempo del dopoguerra, e non solo per i pittori figurativi. L’opera viene considerata un modello e al contempo un ideale confine da travalicare per giungere a nuove esperienze. Almeno sino al 1953, quando la mostra romana dedicata a Picasso decreta l’esaurimento dell’esperienza cubista. E’ qui, del resto, che si conclude cronologicamente la nostra esposizione.
Qual è la reazione dei maestri più anziani?
A differenza dei giovani, che manifestano una risoluta e chiassosa opposizione al Fascismo, gli artisti della generazione precedente proseguono la propria ricerca avulsi dagli stravolgimenti politici, quasi come se nulla fosse accaduto. Hanno ideali estetici e linguaggi consolidati che non intendono contraddire, un’identità ormai solida che non prevede evoluzioni o sconfessioni. Morandi, Carrà, Sironi, Balla, De Pisis, Marini, persistono ad operare rimanendo ancorati alla tradizione.
L’atteggiamento di De Chirico, in questo senso, è emblematico…
Lui si attesta su posizioni nietzschiane: l’arte è un “eterno ritorno”, un continuo riaffiorare del passato. Rimane fedele alle evoluzioni interne alla propria storia, al proprio percorso creativo. In Ettore e Andromaca, in mostra, si assiste al recupero dei manichini metafisici: mentre i colleghi più giovani cercano febbrilmente il moderno, De Chirico si estrania dal divenire dell’arte, proponendosi come la più icastica incarnazione dell’“eterno immutabile” di Baudelaire.
Fondamentale è la figura di Lucio Fontana, il cui Manifesto Blanco, redatto a Buenos Aires nel 1946 e divulgato in Italia l’anno successivo, costituisce il punto di partenza dello Spazialismo.
Reduce dall’attività astratta degli anni Trenta e dall’esperienza sudamericana, Fontana vive da protagonista il dopoguerra, indicando da subito un linguaggio unico, indipendente rispetto ai modelli cubisti e surrealisti.
La sua è una pittura di “percezione”: più che alla compiuta realizzazione di un’opera, egli mira a suggerire una sensibilità globale dello spazio, chiamando il fruitore ad un nuovo rapporto con l’arte, fatto di pura sensazione: il diaframma del quadro si lacera, il dietro è messo in rapporto col davanti, la tela si incurva e diventa superficie scultorea, inglobando lo spettatore. Il legame con la pittura figurativa e con quella astratta degli anni precedenti è definitivamente superato.
Oltre a Fontana, quali sono i nomi più eclatanti del dopoguerra?
Artisti provenienti dalla scuola romana come Afro, dopo una fase figurativa e neocubista, affogano sempre più le loro suggestioni in un linguaggio astratto e in seguito informale, che definirei lirico. Sulla tela Vedova, il maggior rappresentante della pittura gestuale in Italia, traspone scariche emotive: impulsi, sensazioni che non prevedono alcuna mediazione razionale. Burri ricorre a materiali alternativi – pietre pomici, muffe, catrami, tele di juta – come colori o superfici modificate da una qualche forma di energia. In Guttuso, invece, prevale la denuncia sociale.
E la scultura?
Un’intera sezione dell’allestimento, intitolata Scultura lingua morta – dal celebre saggio scritto da Arturo Martini nel 1945 -, è dedicata all’arte plastica del dopoguerra, rappresentata, oltre che dallo stesso Martini, da personalità come Leoncillo, Viani, Consagra, Fazzini… a dimostrazione che la scultura italiana del periodo è una delle più vitali del contesto europeo. Neppure Fontana ha mai interrotto la produzione di ceramiche: in mostra esponiamo il Ritratto di Teresita, la moglie dell’artista, contraddistinto dall’uso dell’oro e da giochi cromatici che ne fanno un’opera sospesa, artefatta.
Per concludere, c’è qualche aspetto della mostra che intende sottolineare in modo particolare?
La rassegna è stata concepita come una sorta di “atto riparatorio”, che accosta in un unico allestimento i principali esponenti dei movimenti sorti nel dopoguerra. Viene presa in considerazione ciascuna vicenda, messa a confronto con le esperienze dei grandi protagonisti della prima metà del secolo: le opere giovanili di Dorazio e Perilli, i Sacchi di Burri, lo spazialismo di Guidi e Fontana, il realismo aulico di Afro o le sculture di Leoncillo, interagiscono con i lavori di De Chirico, Balla, Carrà, De Pisis, Manzù.
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[PDF] L’Italia s’è desta
STILE ARTE 2011