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di Maurizio Bernardelli Curuz
Una macchia rosa sulla coscia di un levriero. Soltanto quel particolare, che ha la forza del sole ardente, sconvolge Derek Walcott durante la visione di un quadro di Tiepolo. Non il cielo altissimo, né il vento d’ambra e l’oro che garrisce tra i panneggi, né i personaggi del dipinto, elegantemente abbigliati. Né, ancora, il prodigio di un mondo superno, quello delle classi dirigenti veneziane, che si eleva dall’ordinario orizzonte della mortalità per aspirare al divino. Un territorio di luce gioiosamente primaverile – che è la luce di Venezia sovrana – in cui gli ottimati viaggiano con la forza gaudiosa di uno stormo di rondini, trascinando un gioioso lembo di note acute. Ecco allora, in un apparato pittorico di sublime e sontuosa retorica, la macchia sulla coscia del cane dalla coda lunata, anch’esso nobile per alte selezioni genetiche, ma ancorato, solo in un piccolo punto, alla propria origine canina grazie a un indizio roseo di carne che, agli occhi del Nobel della letteratura (1992), assume la carica esplosiva della verità nascosta all’interno della sublime menzogna occidentale. Il “Levriero di Tiepolo” è uno straordinario poema di Walcott, pubblicato da Adelphi.
Un atto d’amore nei confronti della pittura d’impianto metafisico e quadri feriali di verità. E’ per questo che riserviamo al libro uno spazio privilegiato, poiché coglie – attraverso le illuminazioni della poesia – gli snodi dell’arte occidentale, tra l’apparente ossessione del vero e, in realtà, l’uso illusionistico della tela, tra il linguaggio aulico della tradizione e la rottura impressa ai dipinti dalla rivoluzione impressionista, moto di suprema innovazione che, a giudizio di Walcott, trova in Pissarro – e non in Monet – il massimo interprete. E poiché Pissarro è un ebreo sefardita, argomenta il premio Nobel, possiamo affermare che la svolta pittorica è garantita da forze estranee alla cultura iconica occidentale. In migliaia di distici, sulla linea di una prosa poematica di stampo narrativo, Walcott dipinge in versi il poema omerico dedicato alla pittura e ai fermenti del moderno. Tutto, come dicevamo, parte da quella macchia canina. Walcott non ricorda – o finge di non ricordare – se “ quella vampa di rosa sulla coscia del levriero”, con esattezza, sia rappresentata nel “Convito a casa di Levi” del Veronese o del Tiepolo. Ma poco importa giacché il primo trasfonde nel secondo, con potenza, al di là dl tempo, il proprio corredo genetico, in cui una sorprendente unità sintattica e stilistica e, al tempo stesso, cede al suo successore settecentesco l’errore di un Occidentale che in buona parte rifugge dall’animo del quotidiano. La macchia sulla coscia del cane è una sorta di lapsus veronesiano tiepolesco. La natura feriale – e anti-metafisica – della verità appare allora attraverso un indizio che si rivela visivamente trascurabile, ma che assume, sotto il profilo intellettuale, l’evidenza di un’illuminazione rimbaudiana, fino a divenire una predizione della pittura che verrà:” Niente – scrive Walcott – nemmeno il balbettio/ del chiasso silente che si leva dalle perle/ di luce ricamate sulle maniche a sbuffo,/sulle barbe affilate, sui calici capienti, vale/ il levriero che annusa nella foresta di calze. Un miracolo che esce dalla cornice. L’epifania/ di un dettaglio che illumina un’epoca intera (…)”. Il pensiero del poeta corre allora al proprio padre, un funzionario statale antillano, dilettante di pittura che copiava i grandi classici dell’Occidente, assumendo un linguaggio iconico che non gli apparteneva, attraverso il quale, comunque, “non tradiva la sua origine” seppure producesse “dipinti così lontani dalla vita in fermento attorno a noi./I cani randagi scheletrici, a caccia di immondizia/ i canali ostruiti dal muschio, nei cortili un bisticcio di odori/ purificati dal fumo (…).” Nella funzione prometeica di chi ruba il fuoco del colore agli dei-pittori dell’Occidente, trasformando irreversibile la pittura in qualcosa di estremamente diverso dai presupposti occidentali, Walcott vede Gauguin “il nostro pittore creolo di anses, mornes e savannes, di colline di ulivi, immortatelles. Ci spinge alla ricerca/ del mondo conosciuto e amato: la pelle brunita/ di donne e papaie, una collina della Martinica./ Il nostro martire. L’unico. Morì per i nostri peccati”.
Un martire, un santo, ma non un profeta. Walcott, nel poema, identifica invece un’autentica linea profetica in Pissarro, il rifondatore della pittura occidentale – che aprì a tal punto al nuovo da favorire la seconda rivoluzione cézanniana – lui che, ebreo sefardita, aveva trascorso la giovinezza nelle solitudini assolate di Charlotte Amalie, tra “rigide zie di mogano con ventagli di palmetto”, nel vuoto di immagini della sinagoga. Pissarro rappresenta allora l’autentico eroe della quotidianità, lo strappo rispetto all’Occidente, colui il quale idealmente, assume dalla pittura occidentale la macchia del levriero di Tiepolo per trasformarla in lemma del nuovo linguaggio della vita quotidiana. Un nuovo percorso, lascia intendere Walcott – il quale crea immediatamente un moto identificativo tra sé, il padre e Pissarro, tutti appartenenti al mondo degli esclusi – reso possibile da un innesto sul corpo pittorico europeo, inizialmente controverso fino al rigetto, di geni provenienti da lontane culture aniconiche. Pissarro lascia infatti l’isola del sole, la terra senza immagini in cui è cresciuto, per raggiungere la Francia.
Qui partecipa, in veste di guida, al movimento più rivoluzionario nell’ambito della pittura, composto da un’accolita di esclusi che si discosta dal “fare liscio” dell’Accademia, che ferma l’istante luminoso e che propone, come quadro finito, ciò che, in passato, sarebbe stato considerato un semplice bozzetto. “Erano gli esclusi dell’Accademia, gli sporchi/ negri di colonie barbare, scrive Walcott – una schiatta polemica!”. ( Il Rinascimento, illuminante, aveva dipinto altari, / soffitti, cupole, banchetti con un cane inarcato,/ mentre i pittori di questa città, l’arte dell’atelier,/ l’hanno resa sublime e secolare come la nebbia”). Erano i tempi in cui Renoir costava quarantasette franchi e l’orizzonte visivo era dominato da i falsi Dei dipinti dai pompiers. E Pissarro? Pissarro era il campione dei campioni, nell’ambito della ricerca della natura dimessa e nell’esplorazione del presente.
“Pissarro indossava l’eresia con rassegnazione – sostiene il premio Nobel nel poema – come un religioso che rinuncia allo scapolare”; e in tono ancor più dimesso, il suo cuore “ dardeggiava come un passero/ tra frontoni e mansarde, per becchettare il pane quotidiano”. Un passaggio irreversibile. “Ora le sacre scene pastorali erano circondate/ da fabbriche, stazioni, dalle strisce bruciacchiate/ dalle ciminiere; palme mozzate su una spiaggia/ rendevano preziosi i pioppi minacciati, più rari/ i richiami della colomba e dell’allodola, finché/ ogni cornice ospitò il fumo il rumore volgare/ della fabbrica. Dipingeva l’ordinario/ per come era, non elogi di Pontoise”.
L'arte sarà dominata dai meticci. Il levriero di Tiepolo, poema omerico firmato dal Nobel Walcott
Da una piccola macchia rosa sul corpo di un cane dipinto da Tiepolo, il Nobel per la letteratura, avvia un viaggio nella rivoluzione del vedere e del sentire, identificando in Pissarro il profeta di una visione allargata del mondo. Gauguin fu invece l’eroe prometeico dell'arte, colui rubò il fuoco agli Dei dell’Occidente per collocarla anche ai margini sperduti della terra