« La vostra anima è un paesaggio scelto »
– Paul Verlaine
di Stefano Maria Baratti
Per Roland Barthes, una delle condizioni per l’estasi temporale – che sorge tra l’osservatore e l’immagine fotografica – era il silenzio: “Non dire niente, chiudere gli occhi, lasciare che il particolare risalga da solo alla coscienza affettiva.” Con questo passaggio, tratto da La Chambre Claire, l’autore trae uno spunto di riflessione sul processo soggettivo esercitato dall’immagine fotografica (lo “spectrum”) sul fruitore (lo “spectator”) tramite un gioco di rimandi e connessioni involontarie, suddiviso in aspetti razionali ed informativi (lo “studium”) forniti dalla foto, ed impressioni intime e personali suscitate irrazionalmente sullo spettatore da un dettaglio (il “punctum”) che ne determina l’aspetto emotivo.
Nelle fotografie su larga scala dell’artista americano Lawrence Beck, il silenzio del paesaggio funge da protagonista e filo conduttore di un’attenta e meticolosa prospettiva di immagini, uno “spectrum” che registra le atmosfere della realtà per mezzo di luci, ombre e inquadrature. Si tratta di un silenzio che preclude la presenza dell’uomo, manifestandone tuttavia la sua esistenza in una dualità che implica dei concetti ontologici: da un lato la regolarità di un’architettura monumentale (giardini e parchi) come coesione di uno spazio immobile ( il concetto classico di ordine che esamina razionalismo e mito), dall’altro l’immediatezza delle sensazioni associate alla contemplazione aleatoria della natura (boschi, montagne, vallate) come visibilità empirica in continua evoluzione (il panta rei inteso come mutamento e scorrere senza fine della realtà).
Le fotografie di Beck, sia a colori che bianco e nero, sfruttano in maniera interpretativa le limitazioni di un’attrezzatura tradizionale – una macchina fotografica Toyo 810 a banco ottico, normalmente impiegata per la realizzazione di esterni nella fotografia architettonica – al fine di mostrare la bellezza intrinseca della natura e coniugare il genere del pittorialismo (il movimento nato alla fine del XIX secolo per elevare il mezzo fotografico al pari della pittura) nei parametri della fotografia paesaggistica su profondità di campo estese e lunghissimi tempi di esposizione. Lo “spectator” si trova essenzialmente su due versanti diametralmente opposti: lo spazio statico del giardino (o il reperto archeologico) come sistema di assi visivi progettati in maniera rinascimentale che rievoca le planimetrie di André Le Nôtre, e l’idillio della natura selvatica nell’ambito e nella pratica dell’ en plein air, la pittura concepita dalla scuola di Barbizon e dagli impressionisti – soprattutto Monet – a cui Beck dedica una serie di immagini dedicate alle ninfee di Giverny.
Tra i soggetti prediletti dell’autore – presente per molti anni presso la galleria Sonnabend di New York con la sue suggestive stampe in formato gigante – sono i riflessi delle relazioni fra uomo e ambiente, il carattere percettivo della fotografia e l’interazione tra la soggettività umana (fuori campo) contemplata tramite i caratteri oggettivi dell’ambiente (antropico, culturale e naturale). L’artista alterna l’incontro fra architettura e paesaggio negli spazi aperti di parchi e giardini italiani (Boboli, Caserta, Marlia, Ninfa, Villa Bardini) ad un lungo e appassionante sincretismo tra storia e contesto geografico (Via Appia Antica, Villa Barbarigo Pizzoni Ardemani, Villa Pisani, Acquedotti Romani) negli ambiti di un intervento fotografico come mediatore culturale che fissa, senza alterare, il campo delle rappresentazioni e ne definisce i nessi che vi si intrecciano tra lo scorrere del tempo e le testimonianze delle vicende umane. In tali frangenti, riconosciamo il paesaggio (lo “studium”), come bene culturale a carattere identitario, frutto della percezione collettiva, nonché riflesso degli stati d’animo dell’osservatore (lo “spectator”), il solo in grado di modificare l’immaginario psicologico.
Lo storico d’arte Giulio Carlo Argan definiva il giardino una “sistemazione artificiosa, secondo moduli geometrici o fantastici, di terreni coltivati, allo scopo di ottenere un risultato prettamente estetico”. Ne consegue che il carattere estetico dei parchi e dei giardini proposti da Beck siano collegati soprattutto all’osmosi di natura come organizzazione e distribuzione di colture precostituite secondo un disegno iniziale, una sistemazone artificiale di siti a scopo decorativo, dove geometria ed architettura, in mutua relazione, svolgono un ruolo di “figurabilità” sempre associata a progettazioni umane. Sono pertanto inquadrature che identificano l’ordine, l’equilibrio di un sistema, dove arte, storia e architettura confluiscono per pianificare l’entropia e il caos normalmente associati alla natura allo stato brado.
La serie dei parchi e dei giardini – malgrado le inquadrature quasi intenzionalmente evitino l’inavvertito ingresso dell’accidentalità – non registra la realtà asetticamente come semplice strumento di riproduzione, ma è il frutto di un meticoloso processo di sopralluoghi e composizioni sempre più accurate ed uno stile del tutto personale e soggettivo, dove l’uso del colore sottolinea differenze cromatiche in base a condizioni atmosferiche che illustrano l’importanza della luce non come fattore determinante, ma come riflesso che cattura sia l’immobilità monumentale della memoria, sia il costante mutamento della natura.
Acquistando una dimensione estetica intrisa di romanticismo e neoclassicismo, Beck si separa dalla fotografia documentale o reportage, contrapponendo un pittorialismo che rimane fedele al banco ottico del suo apparecchio fotografico, il cui assemblaggio modificabile gli consente di cambiare lunghezze focali senza evitare tempi di posa molto lunghi, e di cambiare le prospettive utilizzando gli stessi movimenti dell’apparecchio. Nei processi di stampa, l’artista scanziona il negativo intervenendo digitalmente fino ad ottenere una stampa finale su larga scala (circa 152 x 185 cm.); sono queste dimensioni a garantire da un canto l’esistenza di rappresentazioni pittoriche delle sue immagini, e dall’altro la promozione di un “paesaggio percettivo” sulla falsariga delle composizioni di Eugène Atget, dove si coniuga la mediazione del paesaggio esterno, oggettivo e tangibile, con quello “interno”, nascosto e mutevole. Le dimensioni in formato gigante delle stampe di Beck, unitamente alla nitidezza dei piani della scena e la profondità di campo, consentono al pubblico di identificarsi, tout court, con la visone contemporanea dell’artista, con i suoi silenzi e con la sua poetica.
Nell’accezione del tardo Ottocento e primo Novecento, il concetto di fotografia paesaggistica era strettamente legato a criteri di bellezza e valore. Si trattava di un’ottica determinata da delimitate panoramiche. Basti pensare ai primi praticanti di questo genere: l’inventore della calotipia, Henry Fox Talbot e David Octavius Hill, che già dal 1842 produssero vedute di paesaggi rurali e urbani. Nel corso degli anni, quando ancora la fotografia amatoriale non è ancora una pratica diffusa, si definisce uno spessore commerciale con l’introduzione della cartolina illustrata, a cui si affida il compito di conoscere il ricordo delle esperienze dei luoghi, il cosiddetto ricordo “soggettivo”, memorie di “sentimenti dell’ora”, anticipatori di quei veicoli borghesi (le prime Kodak con pellicole in rullo) che più avanti sostituiranno la cartolina con la volgarizzazione del mercato fotografico con diffusione di massa, e alla portata di tutti, fino all’avvento del digitale. Nel corso degli anni la fotografia artistica assume un ruolo indipendente con la definizione di “paesaggio percettivo” , un termine recentemente codificato sulla falsariga di “bellezza da cartolina”, ma ripristinato all’insegna di protezione di bellezze naturali, di valori esclusivi alle porzioni di territorio, legati a delimitati scorci e vedute panoramiche.
Le fotografie di Beck ripropongono, immutato, l’effetto originale della fotografia paesaggistica, con una raccolta meticolosa e selettiva dove alla geometria neoclassica dei parchi e giardini si alternano ampie vedute di bellezze naturali, soprattutto quelle dell’arco alpino con il maestoso Monte Rosa – da sempre conosciuto ed apprezzato per i suoi estesi ghiacciai – e la sua flora.
Vissuto a lungo in Val d’Aosta e profondo conoscitore delle sue bellezze naturali, Beck ricostruisce il suo passato formulandone un paesaggio interiore, accarezzando con il suo obiettivo intere distese sassose, rupi, acque correnti, ranuncoli a foglie di aconito e altre bellissime specie di flora alpina. È una visione puramente soggettiva, legata indissolubilmente all’esistenza, ai ricordi e alle emozioni connesse ad un paesaggio, dove il nostro vissuto – e non l’artificio del monumento e di qualsiasi teatralità – si esprime con il dispiegarsi dell’esperienza personale e del legame affettivo alla propria terra, al profondo delle sensazioni individuali. Da questo punto di vista il paesaggio è un prodotto sociale e non rappresenta un bene statico, ma dinamico. Beck rimane, certamente per scelta, fedele fino alla fine al suo tradizionale apparecchio fotografico, ora testimone di un’interazione tra la soggettività umana e i caratteri oggettivi dell’ambiente, il “punctum” che ne determina lo stato emotivo.
In definitiva , nel corpus delle opere di Beck, in questa sua appassionante rassegna tra architettura e contesto, all’interno delle sue vedute celebrative e manifestazioni grandiose della natura contemplativa, tra particolari architettonici di facciate erose dal tempo, tra significati e significanti di ninfee, boschi e vallate alpine che interconnettono natura e cultura, si ravvede una prospettiva senza gerarchie, la presenza di un pensiero, di un punto di vista che avvicina l’autore al fruitore: il vero “spectator” forse è un impercettibile silenzio, prodotto dalll’assenza dell’uomo. Come asseriva il pittore Jean-François Millet, ci accorgiamo della presenza umana ammirando un paesaggio. E viceversa, ci accorgiamo di un paesaggio, ammirando un volto umano.