di Enrico Giustacchini
[C]arrà futurista parte da lontano, dal 1904. Parte dai funerali dell’anarchico Galli. Il giovane pittore (era nato nel 1881 a Quargnento, in provincia di Alessandria), simpatizzante socialista, vi assiste, e ne riceve una violentissima emozione.
“Vedevo innanzi a me la bara tutta coperta di garofani rossi ondeggiare minacciosamente sulle spalle dei portatori – scriverà in seguito, rievocando l’evento -; vedevo i cavalli imbizzarrirsi, i bastoni e le lance urtarsi, sì che a me parve che la salma avesse a cadere da un momento all’altro in terra e i cavalli la calpestassero. Fortemente impressionato, appena tornato a casa feci un disegno di ciò a cui ero stato spettatore. Da questo disegno, e da altri successivi, presi lo spunto, più tardi, per il mio quadro”.
Sei anni dopo, in un mattino di febbraio del 1910, Carrà, Boccioni e Russolo, reduci da un elettrizzante incontro con Marinetti, si riuniscono in un caffè di Porta Vittoria, a Milano, e compilano un manifesto destinato alle nuove leve dell’arte italiana, per invitarle “a scuotersi dal letargo che soffocava ogni più legittima aspirazione”.
La sera, il testo è pronto; l’indomani, con la benedizione di Marinetti, è dato alle stampe e diffuso in migliaia di copie. Il movimento futurista è nato. “Fu il ricordo della drammatica scena dei funerali dell’anarchico Galli che mi fece dettare per il Manifesto la frase: ‘Noi metteremo lo spettatore al centro del quadro’” preciserà il Nostro. A ribadire che la rivoluzione di cui fu promotore aveva radici gagliarde, confitte nell’humus di una stagione irrequieta, che poggiava sugli echi di ansie lontane e oramai placate, come la Scapigliatura, per innestarsi nei fermenti del Divisionismo (e divisionista, per un breve periodo, Carrà lo era stato: pensiamo a lavori quali I Cavalieri dell’Apocalisse, Uscita da teatro, Stazione a Milano).
Fino al 1914, il pittore piemontese sacrifica alla causa ogni energia: dipinge, teorizza, tiene conferenze. E viaggia, anche: a Parigi conosce tutti i grandi artisti del tempo, ed avvia proficui contatti con l’ambiente cubista, con il quale svilupperà un rapporto privilegiato (di una sua celebre opera, La Galleria di Milano, Roberto Longhi scrive sulla Voce che “è un quadro solidissimo, di tendenze assai cubistiche”).
Carlo il ribelle dirà, a proposito dell’esperienza futurista: “Aggiornare l’Italia ai sensi della modernità in arte era il nostro primo scopo. (…) La base architetturale del quadro, nel concetto futurista di nuova espressione della forma, risponde all’idea sinfonica delle masse, del peso e del volume, d’un generale movimento di forme determinato dalla nostra moderna sensibilità. Quindi, niente uguali suddivisioni delle parti costruttive, come usarono gli artisti del passato, bensì di forme concrete con forme astratte, di forme velate con altre trasparenti; ripetizioni di parti di certi corpi, le quali, rompendosi, si intersecano e si compenetrano. Noi affermavamo, infine, che il nostro concetto della prospettiva era in antitesi con quello della prospettiva corrente”.
Mentre tuona contro la tradizione, però, Carlo l’avanguardista nutre già i primi dubbi. In Europa rombano i cannoni della Grande Guerra e il Nostro comincia a non sentirsi più così convinto che il Futurismo sia la soluzione di tutti i problemi dell’arte. Così, si mette a studiare Giotto e Paolo Uccello. Studi da cui gli derivano, come osserva con acutezza il figlio Massimo in Carlo Carrà. La mia vita, Viviani, 2003, “aspirazioni diverse, riferibili a un fortissimo desiderio di identificare la propria pittura con la storia, e specialmente a recuperare il ‘tempo storico’ dell’arte italiana, cioè a stabilire un possibile raccordo tra modernità e lezione storica”.Dopo aver cantato il dinamismo, Carrà è alla ricerca dell’ordine che dietro di esso si cela. Nel 1915 rompe definitivamente con il movimento di cui pure era stato un assoluto protagonista. Nel 1916 vive una parentesi neoprimitivista, nel corso della quale affronta, per usare le parole di Elena Pontiggia, “la questione del rapporto fra arte e originarietà, come tra la creatività artistica e lo stupore tipico dell’infanzia, ripensando al Doganiere Rousseau, ma anche ai ‘primitivi’ di ogni tempo”, perché “Rousseau è per lui il prototipo del primitivismo, che però sa amalgamarsi con la sapiente reminiscenza di Giotto e di Paolo Uccello, i maestri cui dedica in quell’anno nevralgico scritti fondamentali”.
Richiamato sotto le armi, nel 1917 Carlo è ricoverato in un ospedale militare nei dintorni di Ferrara. Qui incontra Giorgio de Chirico, qui ha inizio la sua stagione metafisica. Come era avvenuto con il Futurismo, anche stavolta egli saprà vivere questa avventura decisiva per l’arte europea da autentico primattore. Diversamente da De Chirico, nei suoi dipinti è l’attenzione, costante ma serena, alla quotidianità delle cose a prevalere sugli aspetti onirici, simbolici, indecifrabili dell’universo rappresentato; ma sempre oltre il naturalismo, nella tensione ad un’originaria atmosfera spirituale. “Sono le cose ordinarie a rivelare quelle forme che ci dicono uno stato superiore dell’essere – afferma -. Così le immagini esistono quando l’animo si inarca e le cose non sono delle cose, ma espressione poetica del nostro spirito creatore”.
“Nonostante la coincidenza di alcuni motivi (come il manichino, che riprende, sia pure con diverse declinazioni), la Metafisica di Carrà, a differenza di quella del Pictor Optimus, è fiduciosa in un ordine superiore” annota Elena Pontiggia. E molti dei suoi lavori “esprimono un senso di precarietà che però non sfocia mai, come nelle contemporanee opere di De Chirico, in un angoscioso sentimento dell’assurdo”.
Anche su questa gloriosa esperienza, tuttavia, calerà presto per lui il sipario. Carlo il maicontento trascorre l’intero anno 1920 senza terminare nemmeno un quadro, arrovellandosi in mille domande, che è poi una sola, la domanda cruciale della pittura di ogni tempo: come arrivare all’essenza delle cose raffigurate?
La risposta arriva nel 1921. Alcuni definiranno questa marea, placida e possente insieme, “realismo magico”; altri “realismo mitico”; altri ancora “realismo lirico”. Carrà chiude
– pur non rinnegandole, anzi riconoscendone la straordinaria importanza – con le avanguardie, di cui è stato, in Italia, l’interprete per eccellenza. Come sempre accade in tali frangenti, non mancano le critiche, anche feroci, né le accuse di tradimento. Giustificate? Si trattò piuttosto, replica il figlio Massimo, “del risultato di quell’alternanza, o rapporto dialettico insito nella storia, che corre fra rivoluzione e tradizione, e che i tempi gli riproponevano come esigenza dello spirito dopo tanto fervoroso accavallarsi e scavalcarsi di idee e ricerche variamente iconoclaste nei primi due decenni del secolo. E questo per lui significava appunto ricercare la propria armonia nelle cose che gli stavano attorno, pittoricamente determinate in linee e colori sulla corda sonora del rapporto tra la luce e l’ombra, il pieno e il vuoto”.
“Affermo la necessità imminente della ricerca di un vero poetico – scriverà in quel periodo l’artista -, sostenendo che l’immateriale cerca adeguata forma, e la forma crea la superiore armonia che ritorna all’immateriale svelato attraverso l’espressione pittorica. Altra cosa, dunque, sono i falsi classicismi, i quali si attagliano soltanto a coloro che vogliono apparire profondi con poca fatica”. Carrà andrà definendo, nei saggi teorici dell’epoca, quello che battezzerà “principio italiano”, asserendo che ciò che sta alla base dell’arte somma di casa nostra, dal XIV al XVI secolo, non va messo in contrapposizione con la tradizione moderna. Anzi, è proprio partendo da lì che si può concretizzare l’operazione di interpretazione del reale mediante la creazione di un modello classico, arcaico o addirittura mistico, naturalmente in un contesto di modernità e che alla modernità attinge in misura inesauribile e copiosa. I campioni cui fare riferimento, allorché si tratti di pervenire a una rielaborazione iconica non naturalistica, in una parola ad un’astrazione della forma, non possono che essere loro, i “soliti” Giotto, Paolo Uccello, Masaccio, Piero. D’ora in poi, il Nostro andrà percorrendo, pervicacemente, un itinerario di ricerca che non si interromperà se non con la morte, nel 1966. Un itinerario da “isolato”, già da quei primi anni marchiati dal “ritorno all’ordine”, quando parlare di tradizione e di classicità assumeva quasi inevitabilmente sapori retorici e significati retrivi (Carrà non aderì mai, ad esempio, al gruppo di Novecento – pur esponendo in alcune delle sue mostre -, proprio perché non ne condivideva certe inclinazioni).
Un lungo cammino, quello di Carlo il solitario, solcato dal confronto con il passato e dall’inesausta volontà di costruire un inedito universo pittorico, antico e moderno insieme. Osserverà, nel 1955, lo studioso tedesco Werner Haftmann: “Nessuno ha compreso come Carrà l’intima poetica di Masaccio, la cui segreta forza irradiante ha turbato tanti artisti moderni, fino a Henry Moore. Carrà toglie alla forma di Masaccio tutto ciò che è aneddotico, torna a semplificarla nel senso dell’arcaico, fino alle forme fondamentali di Giotto, da cui lo stesso Masaccio era partito. Mentre la pittura metafisica non era ancora completamente libera da ‘invenzioni’ poetiche e formali, negli anni che seguirono il 1920 Carrà sviluppa la forma completamente dall’oggetto, con l’aiuto delle solenni astrazioni formali degli antichi fiorentini. Nella sua propria personalità umana vi è qualcosa della severa gravità e dell’arcaico candore che costituiscono la ‘primitiva’ grandezza di quelli.
Così, tutta l’arte di Carrà vive del desiderio di definire a se stessa, mediante un’arcaica semplificazione, la grandezza essenziale delle cose. (…) Tutta la bellezza delle cose si raccoglie nel disegno più semplice della loro forma, e ne emerge come un’altra, una ‘seconda realtà’. E questa è ‘immagine’ del mondo delle cose, una specie di arcaico simbolo della loro esistenza naturale. La concreta, rappresentativa, formale definizione delle cose di Carrà è la sua realizzazione più decisiva; qui è il punto in cui lo spirito latino si distingue dallo spirito nordico.
L’arte di Carrà non appartiene assolutamente all’arte dell’espressione. La forma è così chiusa che non si può aggiungerle più nulla. Essa eterna le cose della natura mediante la determinazione formale, che si compie al di fuori del sentimento. Per questo, nei quadri di Carrà, regna un così grande senso di pace. In molti di essi l’Italia arcaica e paesana è veramente risorta nella sua antica solennità e nella sua melanconica grandezza”.