Il turbamento provocato dal corpo atletico, bello e nudo di Gesù Cristo, dipinto dai pittori, creò seri problemi nei conventi femminili, al punto che badesse, confessori e direttori spirituali, decisero di dar corso, a partire dal XVI secolo a una produzione di opere devozionali, prive di immagini che potessero sconvolgere il già precario equilibrio di tante giovani donne, molte delle quali oggetto di monacazione forzata e pertanto particolarmente esposte alle tentazioni del mondo. Fu tanto per motivi teologici – che poi vedremo – quanto per considerazioni morali che nacque una produzione che, antiquari e critici, hanno gergalmente definito “pittura per monache”, riconoscendo in essa una visione depurata della realtà, con una diminuzione dello spazio riservato al corpo maschile di Gesù, mentre si evidenzia la presenza di soggetti soavi e trasognati. Per quanto non apprezzate, nel recente passato dalla critica, perchè si riteneva che la pittura dovesse squarciare un velo sulla verità, mentre le opere devozionali dischiudevano una splendida visione sentimentale, anch’essa innovativa, ma agli antipodi della bellezza feroce della realtà dominante, oggi questa visione poetica, attenuata, ad usus Delphini, propone al nostro sguardo opere di rilievo pittorico, sociale e antropologico. Tecnica buona e piano sentimentale particolarmente attivo, delineano soggetti di grande interesse. Si procedette infatti ad evitare che le monache potessero immedesimarsi nella bellissima, conturbante Maddalena, le cui cure e l’amore per Cristo avrebbero potuto nascondere la vibrazione di un amore terreno, per portare le monache e le educande, e in genere, le fedeli, ad assumere un altro punto di vista, quello della Madonna, della madre. E’ per questo che la devozione del Bambin Gesù connota, in particolar modo, se non esclusivamente, la devozione femminile, stendendosi, progressivamente, nel periodo barocco al mondo maschile. Ma poichè le Natività non dischiudevano il dramma della Passione e la Gloria della Resurrezione, si procedette addirittura sostituendo la figura di Gesù adulto, nei pressi della Croce o proprio sulla Croce, con l’immagine di Cristo bambino. Un bambino di tre o quattro anni. Frattanto i vecchi dipinti furono rimossi o la pelle del Redentore fu coperta dipingendo panni di fortuna, mentre furono commissionati, soprattutto per la devozione femminile, opere in cui la visione della croce fosse molto distanziata. Il fenomeno, oltre a creare un decoro che potesse proteggere la morale, fu anche motivato da analisi teologiche. Gesù è l’Agnello che viene sacrificato, anche se è privo di colpa. La visione di un bambino al posto dell’adulto avrebbe rafforzato il concetto di sacrificio nella purezza e la Pietà nei confronti dell’Altro. Di grande resa è il dipinto del Padovanino, dedicato alla simbolica crocifissione di Gesù Bambino. Qui sotto il particolare superiore dell’opera.
” Nelle raffigurazioni pittoriche e scultoree del Bambin Gesù per la devozione esiste un intero filone iconografico – scrive Michele Dolz nelle schede del Museo de “Il Divino infante” di Gardone Riviera – nato nel tardo XV secolo, i cosiddetti “Bambini della Passione”. Rappresentano un fanciullo, di qualche anno di età che regge alcuni simboli della passione, come la croce o i chiodi. A volte gli cinge la fronte una corona di spine. Il volto è solitamente carico di dolore e lo sguardo volto verso l’alto in segno di supplica. Ne sono una variante i “Bambini della Passione addormentati”, che raffigurano il Bambino che dorme, spesso su un teschio e una croce o con altri strumenti della passione. Sembrano evocare le parole di Sant’Alfonso Maria de Liguori”: Dormiva dunque il santo Bambino, ma mentre dormiva, pensava a tutte le pene che dovea patire per amor nostro in tutta la sua vita e nella sua morte (…). Pensava in particolare ai flagelli, alle spine, alle ignominie, alle agonie ed a quella morte desolata che infine dovea patir sulla croce, e tutto, mentre dormiva. In altri casi è sveglio e trasmette un sentimento di preoccupazione. E’ iconografia di questi Bambini è mutuata in buona parte dai putti dolenti dell’arte antica. Nel fervore antiquario del primo Cinquecento, Agostino Busti detto il Bambaia ne scolpì diversi. I due più belli sono nella Collezione Borromeo e raffigurano un bambino triste appoggiato su un teschio che spegne sulla terra la torcia. Desiderio da Settignano, invece, tra la sua singolarissima produzione di bambini, scolpì più volte il Bambin Gesù con la corona di spine in mano”. L’immagine di Gesù Bambino dormiente fu ricavata da quella classica di cupido dormiente, il cui sonno garantiva alle donne e agli uomini di non essere colpite dalle dilanianti frecce dell’amore.
«Tutta la vita Ssma di Gesù — scrisse in una lettera Paolo della Croce (Ovada, 3 gennaio 1694 – Roma, 18 ottobre 1775) — fu tutta Croce; e lo stesso dolce Gesù rivelò a S. Caterina da Bologna, che anche Bambino nel ventre purissimo della sua Divina Madre si poneva in forma di Crocifisso, massime al Venerdì, patendo i dolori della Croce. Non mi ricordo se l’ho letto o sentito raccontare ecc. Or basta; è cosa pia da credersi. Sicché lei ha motivo di star più lieta di prima, perché più nascosta in Gesù Cristo su la croce di un nudo patire, e mi creda che per lei mai è andata tanto bene».
Tra i quadri prediletti che ornavano la povera cella romana di Paolo della Croce, ai Santi Giovanni e Paolo,figurava un piccolo quadro di Gesù Bambino dormiente sulla croce
Sotto, un dipinto su tavola di Cristofano Allori, Bambino addormentato sulla croce, Firenze
Sotto, la scheda della Collezione dedicata all’opera di Guido Reni
COME LEGGERE I SEGNI DELLA FUTURA PASSIONE
Nevi eterne, all’orizzonte, e un fiume sinuoso che, da quei luoghi di un gelido azzurro, fluisce alle spalle del Bambino. Una pura fonte sbocca sonoramente, qui, in primo piano.
Sulla proda imbevuta d’acqua prosperano i fiori. Un cardellino poggia lievemente su un albero, osservando un grappolo d’uva. Gesù guarda lontano. Maria lo abbraccia dolcemente, mentre, con la mano destra, indica il Libro.
Certo non siamo di fronte a un rompicapo di simbologia, ma è pur evidente che la Madonna del grappolo d’uva di Bernardino Luini (1480/85? – 1532?) – o comunque di un pittore a lui molto vicino – è un’opera che presenta un intreccio di contenuti allegorici. L’indizio principale dell’azione di un sottotesto è costituito dall’evidenza di elementi che, per quanto descritti con grande precisione naturalistica – secondo il doppio registro leonardesco di soavità degli umani tratti e della minuziosa attenzione alle fisiche verità del mondo – si sottraggono a una logica di pura descrizione della realtà. L’uva, la neve, la viola e la nudità del Bambino sono stagionalmente inconciliabili. La valenza dell’apparato simbolico, nell’ambito delle finalità del dipinto, è pertanto superiore alla necessità realistica di configurare un’unità di tempo e di luogo. Anzi: l’incongruenza invita allo scavo e alla lettura approfondita del quadro. Il dipinto contiene indicazioni legate ai tre segmenti temporali della vita di Cristo, estesi dall’autore a una “quarta dimensione”: quella dell’eternità, delineata dalla solenne, abbacinante presenza di una montagna innevata, sullo sfondo, e dalla perennità dell’alloro, che appare, in un ampio cespuglio, dietro a Maria.
Il libro indica
la voce dei profeti
Alla destra della Madre notiamo un libro che è stato squadernato, più o meno, a metà della legatura. La Madonna poggia la mano su quei fogli. Il gesto è eloquente. Evidentemente il volume è la Bibbia – non potrebbe essere altro – che è stata aperta in corrispondenza di un capitolo dell’Antico testamento. Ecco: il libro costituisce la lastra del passato. L’indice della Madonna ricorda al fedele che la venuta di Cristo è stata a lungo annunciata dai profeti.
Il significato
della viola
Maria e il bambino occupano il centro della lastra del presente, anche se altri simboli dischiudono l’opera al futuro di quel piccolo uomo: l’esile viola – retta dal Figlio tra indice e pollice – è un attributo mariano e cristologico, che allude tanto alla pura modestia della prima quanto all’umiltà del secondo, passato, attraverso l’Incarnazione, dalla natura divina alla condizione umana.
Un’accettazione del destino di sangue e morte che comporta, da parte del Messia, una preventiva e profonda cognizione del dolore. Il colore del piccolo fiore rinvia infatti al viola, tinta quaresimale per eccellenza. Ma i simboli declinati al futuro non si esauriscono nel fiore primaverile.
Gesù osserva
il proprio futuro
Gesù guarda lontano, prefigurando il proprio percorso terreno. Egli sa ciò che avverrà. La mano sinistra scherma gli umanissimi occhi dalla violenza della luce, consentendogli di osservare un punto molto distante – esterno rispetto alla superficie del quadro – da quel luogo di filiale delizia. Soffermiamoci sulla piccola figura, resa con la dolcezza sfumata che caratterizza i ritratti di scuola leonardesca. Per quanto la premonizione – o meglio: la chiaroveggenza – si dischiuda sull’evento drammatico della crocifissione, lo sguardo del Bambino non riverbera l’orrore del Golgota, che egli comunque riesce a configurare, quanto la dolce serenità che discende dall’accettazione dei disegni del Padre.
Il cardellino
prefigura la Passione
Ciò che avverrà è reso evidente, al lettore dell’opera, attraverso due elementi simbolici strettamente interrelati, entrambi appartenenti all’universo simbolico della Passione: il cardellino che poggia sul ramo di un albero – il cui legno allude forse alla Croce stessa – e il grappolo d’uva.
Il cardellino è una presenza reiterata nei dipinti dedicati a Gesù bambino, al punto da rappresentare un’autentica specializzazione semantica finalizzata a disperdere, nella cornice edenica del racconto dell’infanzia di Cristo, i semi del dramma venturo.
Ma la stretta connessione tra la macchia rossa
che chiazza il capo del volatile e il sangue di Gesù, è soltanto un aspetto della metafora pittorica veicolata dal volatile. La specializzazione cristologica del cardellino, nell’ambito dell’apparato simbolico, va ben più in là, fino a prefigurare la corona di spine che provocherà dolorose ferite al Messia. Il nome latino del piccolo volatile, carduelis, – che trae origine dall’abitudine di cibarsi di semi di cardo – suscita infatti l’immagine delle spine e dei rivoli d’un rosso violento che solcheranno la fronte del condannato a morte, a causa della corona di spine. Nel quadro di Luini la posizione del volatile, il cui becco è rivolto nella stessa direzione dello sguardo del Bambino, instaura, tra i due, lo stretto parallelismo della metafora. In alcuni casi al posto del cardellino viene utilizzato, con lo stesso fine semantico, un pettirosso.
Uva: Ultima Cena e sangue di Gesù
Di semplicissima decodificazione, giacché la correlazione tra l’uva, il vino e il sangue è centrale nella celebrazione della Messa – e permane, peraltro dichiaratamente, nella trascrizione evangelica delle parole di Cristo stesso – è la presenza del grappolo che porta nell’ambito dell’Ultima Cena. (“Questo è il mio sangue offerto in sacrificio per voi”).
Il monte di Dio,
l’eternità e la religione
Eppure, la quinta paesaggistica, là in fondo s’apre immediatamente alla quarta dimensione, quella dell’eternità. Se la fonte collocata in primo piano rinvia alla rigenerazione del Battesimo e l’ampio fiume, in un rafforzamento semantico, porta a leggere la futura celebrazione del sacramento impartito da San Giovanni a Cristo, nel Giordano, le montagne, di un niveo candore, non appaiono tanto come frutto di un imprinting visivo di Luini, pittore dell’Italia del Nord, quanto, al di là dell’efficace descrizione naturalistica, come un denso, illuminante strato di significati simbolici, suscitati dai Vangeli e dalla patristica.
“Le altitudini della montagna – scriveva monsignor De La Bouillerie ne Le symbolisme de la nature (1864) – sono attributo di Dio. Altitudines montium ipsius sunt. Esse ci avvicinano al cielo (…) Il Signore dice a Mosé: ‘Guarda e comportati secondo ciò che ti è stato mostrato sulla montagna’. Va infatti ricordato che i fatti cruciali della religione avvengono sulle montagne. L’arca si ferma, dopo il diluvio, su una montagna dell’Armenia. Dio detta le sue leggi a Mosé sul monte Sinai. Il profeta Elia deve salire l’Horeb per sentire la voce di Dio. Dio stabilisce il trono di David sulle montagne di Sion. Non appena Maria ha concepito il suo divino Figlio, eleva lo sguardo verso le montagne. Quando Gesù Cristo imbocca la via dell’apostolato è dalla cima di una montagna che parla per la prima volta folla”. Ma i monti candidi dipinti da Luini nella quinta più lontana alludono, con solennità, all’eterno e alle parole dei santi, alla divina purezza e all’episodio evangelico della Trasfigurazione.
“L’evangelista (Matteo) – aggiunge De la Bouillerie – quando parla della Trasfigurazione di Gesù Cristo sul monte Tabor riferisce che gli abiti del Salvatore apparivano bianchi come la neve. Sant’Agostino ci ha poi insegnato che i vestiti di Cristo, candidi come la neve, altro non sono che la Chiesa, della quale, nei santi Cantici, è detto che è bella e senza macchia alcuna”.
Per l’uomo del Cinquecento, il monte innevato doveva costituire un’autentica palestra simbologica, ricchissima di rinvii. La decodificazione delle diverse allegorie costituiva un esercizio di approfondimento o di recupero mnemonico dei brani biblici, che doveva assumere la valenza di un percorso di preghiera.
E’ sotto questo profilo che il nostro sguardo, cresciuto, a livello di suggestione iniziale, sotto i dardi sensuali e superficiali dell’arte borghese di stampo impressionista – e passato attraverso le stagioni del realismo – deve ricollocarsi in un articolato sistema di segni, che è quello dell’espressione artistica delle origini.
GESU’ BAMBINO E LA MADONNA NELL’ARTE. ICONOGRAFIA MARIANA
LA NATIVITA’ DI GESU’ NELL’ARTE