di Giuseppe Fusari
[A]l di là delle etichette e delle mode, quella di Caravaggio rimane una pittura a tratti scoraggiante non tanto per il contenuto, ma per le modalità con le quali l’artista l’ebbe a creare.
Forse l’eccezionalità della vita, quell’andare un po’ bohémien per le vie di Roma a turbare la quiete pubblica, ha fatto equivocare sulla sua reale capacità di immedesimarsi in un clima culturale complesso e variegato come quello della Città eterna tra la fine del Cinquecento e l’inizio del secolo successivo. Equivoco che, forse, è quello di ritenere Caravaggio pittore un po’ selvaggio, rozzo, istintivamente portato alla superficie delle cose, quindi interessato alla loro manifestazione bassa. In una parola a tutto quello che portava i contemporanei a vederlo così distante dagli stilemi e dalle consuetudini artistiche consolidate.
Eppure dalle pagine del voluminoso testo di Ferdinando Bologna, L’incredulità del Caravaggio (recentemente ripubblicato con l’aggiunta di nuovi saggi da Bollati Boringhieri; 681 pagine, 45 euro), vengono ribaditi legami e collegamenti con personaggi tra i più disparati della cultura e della scienza che, a tutta prima, sembrerebbero distanti dalla furia del pittore lombardo, dediti piuttosto alla costruzione di sistemi filosofici o scientifici che ancora oggi affascinano e stupiscono (alla stessa maniera di Caravaggio). Personaggi, a loro volta distanti nell’approccio alle materie usuali e capaci di costruire un proprio orizzonte di pensiero basato su concetti che tentano – con specifico e autoreferenziale metodo – di organizzare un discorso compiuto sul mondo e sulle cose proprio alle soglie della cultura scientifica moderna.
Il discorso su Caravaggio, per quel fascino che va al di là della resa spietatamente realistica delle cose, non può prescindere dai passaggi storici che si vanno compiendo proprio negli anni nei quali, turbolento e sfacciato, attraversa le strade di Roma con la spada al fianco. Paradossale e discontinuo lo descrivono, seppure non con queste stesse parole, i suoi primi biografi; e come loro, quando il discorso dal giudizio del benpensante si sposta su quello del valore d’artista, è sconcertato lo sguardo di quei committenti che all’irregolare lombardo davano credito e fiducia e che, anche al di fuori dei confini dello Stato Pontificio, dopo il fattaccio dell’omicidio di Ranuccio Tomassoni, continua a seguirlo, lui, cervello stravolto e forse paranoico, rincorso da nemici senza nome e da troppi errori sulla strada.
Incredulo lo dice Bologna fin dal titolo di questo libro; paradossale lo chiamano altri che nel suo essere, nella sua pittura e nel suo fascino trovano motivi ispirati a un tipo di religiosità controriformata declinata in modo tutto particolare; realista nella sua essenza lo dicono altri ancora, in quel mettere in scena e comprendere, primo tra tutti, che la realtà è senso di rappresentazione, intuizione teatrale, definizione del momento esatto nel quale tutti gli elementi sono comprensibili e descrivibili. Ma non nella definizione dei particolari. Piuttosto nel ricavare l’essenza delle cose dall’esperienza come unico criterio di costruzione di un linguaggio pittorico e del possibile modo di esprimerlo.
Che le figure che escono dall’ombra abbiano valore simbolico, scientifico, divino o semplicemente poetico poco importa quando si tratta di definire il risultato. Molto quando si voglia, invece, tendere un tranello all’artista e scoprirne i labirintici moti del cuore. E l’immensa quantità di dati che continuano ad aggiungersi alla documentazione su questo Michelangelo da Caravaggio – pittore mai oscuro, nemmeno quando, per scongiurarne il fascino, se ne dipinse il solo tratto buio e criminale – non fanno altro che offrire l’antidoto a una semplificazione delle cose che lo riguardano, sempre in agguato quanto più ci si accontenta di relegarlo nella schiera degli ‘irregolari’ soltanto.
In verità le testimonianze su di lui non fanno che continuare a riproporre il dilemma sulla vera natura di Caravaggio e sul suo rapporto conflittuale con il tutto. Il silenzio grandioso che circonda i suoi personaggi; l’atto immobile di figurarli nell’istante che cristallizzi in eterno l’elemento più fragile, vero e naturale che si possa pensare; l’indisponibilità a considerare il dettato, la regola, la verità aristotelica come elemento fondante per la risoluzione iconografica dell’arte. Questi sono gli elementi che, più di tutti gli altri, continuano a tenere Caravaggio lontano da definizioni troppo strette e semplificate.
Così come quel selvaggio modo di considerare il sacro come dirompente e costringente irruzione del divino nella realtà, capace di elevarla alla sua misura per colmare un’aspirazione legittima dell’essere. Un essere che, come tale, può ritenersi degno della divinità senza per forza essere costretto
– attraverso il preconcetto dell’inadeguatezza cronica ereditata dalla filosofia antica – ad essere abbellito o misurato con idealizzazioni per sembrare degno di farsi immagine di Dio.
Quello su Caravaggio è un discorso che rischia anche di imporre visioni unilaterali, dogmatiche, che chi scrive non si permette di giudicare e nemmeno di indicare. Tuttavia è la complessità del non detto che lascia così vasti margini all’interpretazione della figura e dell’opera di questo genio irregolare. Di lui parlano i quadri e qualche parola buttata qua e là da qualcuno che l’avrebbe sentita e riferita. Parlano le aspirazioni alla regolarità (tra tutte la più commovente e folle è quella della sua aggregazione ai Cavalieri di Malta) e alla costruzione di un linguaggio che indicasse l’onestà sublime della bellezza naturale.
E gli occhi sfuggenti e sempre presenti di quegli autoritratti che semina nelle sue opere, dalle prime prove giovanili fino all’ultima atroce figurazione del Martirio di sant’Orsola, compiuto pochi mesi prima della morte. Occhi da comparsa, sulla scena di un mondo (quello della finzione pittorica) che obbedisce a meccanismi che si intrecciano con la poesia e la volontà dell’artista, ma che non possono fare a meno della conoscenza e dell’analisi, dell’illuminazione e della disposizione. Come a dire che le tracce del discorso sulla realtà (e con essa sulla verità della sua rappresentazione) non possono che passare attraverso il filtro improbabile e paradossale della mente dell’artista e da qui prendere forma nello spettacolo affascinante della realtà quotidiana non meno capace di quell’altra, quella solo immaginata e distillata dalla tradizione, di veicolare il senso dei sensi e delle più profonde conoscenze. E dell’uomo e di Dio.
In un teatro dal quale emergono, dal profondo dell’ombra, idee antiche e certezze moderne, incontri e situazioni che, forse, l’artista non riuscì – come gli capitava nella vita di tutti i giorni – ad amalgamare per raccoglierli in un tutto compiuto e coerente.
Che cos’abbia ritenuto di Bruno, Galilei o Campanella, così come dei discorsi degli amici grandi e piccoli, non è dato saperlo. Forse, insieme alla incredulità del Caravaggio dovremmo (e dovremo) fare i conti con l’incredulità sul Caravaggio, su quel non detto che ci costringiamo (ed è un dovere) a colmare con documenti, congetture e punti di vista che non possono avere, necessariamente, che soluzioni parziali, affascinanti e provvisorie.