di Vittorio Sgarbi
Dice Baudrillard, uno dei più noti filosofi dei nostri tempi, che la volontà di confondere l’arte sempre più con la “realtà”, attraverso l’impiego del ready-made o di mezzi riproduttivi come la fotografia, il cinema o la televisione, sta annullando il senso stesso dell’arte. Che differenza ci può essere tra un oggetto qualsiasi e uno identico che un artista utilizza come opera d’arte? Che il secondo, per distinguersi dal primo, ha bisogno di una giustificazione di tipo concettuale, una ragione teorica che diventa il motivo centrale dell’opera d’arte. Baudrillard sa bene che la valorizzazione del concetto, da Duchamp a Kosuth, è stata una grande conquista dell’arte contemporanea. Insistendo troppo sul concetto, però, l’immagine è finita per diventare un pretesto, un modo come un altro per dare un riscontro visivo a una riflessione. Si tratta di un errore fatale – Baudrillard lo chiama la “disillusione” – che sta trasformando un linguaggio, una volta vivo, in uno chiuso e morto. Per essere ritenuta tale, l’arte deve essere sempre illusione, “non realtà”, immagine che può fare a meno del concetto per giustificare la sua ragione di essere. Non ci può essere un’arte senza illusione, senza immagine, senza immagini che creino illusioni. Non c’è dubbio che l’arte di Sandro Luporini lavori nella direzione auspicata da Baudrillard. E’ facile constatarlo oggi, quando considerazioni come quelle di Baudrillard sono accettate ormai da tutti; era più difficile farlo ieri, quando certe previsioni venivano sbeffeggiate dagli ideologi dell’avanguardia, dai presunti sostenitori del “progressismo” artistico, dai “santoni” di uno sperimentalismo all’interno del quale l’intelligenza e la stupidità si confondevano liberamente.
Oggi molti di quegli ideologi si sono ricreduti e hanno corretto le loro opinioni. Luporini no, lui non è cambiato, lui aveva visto giusto fin da tempi insospettabili. Da circa quarantacinque anni Luporini, viareggino di nascita e di spirito, milanese d’adozione per tanti anni, è un “combattente” dell’arte dell’illusione e dell’immagine. Un combattente “sui generis” silenzioso e paziente, tendenzialmente solitario, talmente atipico da risultare conosciuto ai più per un’attività diversa da quella pittorica: Luporini è stato il fidato mentore di Giorgio Gaber, del quale ha scritto i testi di canzoni e di spettacoli conosciutissimi da una vasta schiera di fan. Testi di forte suggestione, quelli di Luporini, sferzanti critiche politiche, sociali e di costume, che erroneamente farebbero pensare a un corrispettivo pittorico come Grosz o Maccari. In fondo anche la grande dimestichezza del pittore Luporini con le parole, estranea alla maggioranza della categoria (“per me parlano le mie opere”, dicono troppo spesso gli artisti), è una dimostrazione ulteriore di diversità, uno “status” d’intellettuale pluridisciplinare quasi d’altri tempi. Luporini ha dunque praticato la figurazione anche quando veniva tacciata di passatismo o addirittura di simpatie accademiche dalla critica militante. Ora potrebbe sentirsi un vincitore, uno che avrebbe diritto a prendersi le sue rivincite, e invece preferisce mantenere la stessa taciturna discrezione che ha avuto in passato. Forse perché Luporini le sue piene vittorie le aveva già conseguite su un campo meno evidente di quello pubblico, ma per lui non meno importante: quello dell’appagamento interiore, della coscienza di aver stabilito con la sua arte un rapporto di necessità che nessuna moda contingente avrebbe potuto incrinare. Da sempre, oltre che come illusione (nel senso della “non realtà” che preciseremo più avanti) e come immagine, Luporini ha interpretato l’arte come un bisogno espressivo.
Quando ha esordito, nei primi anni Cinquanta, il dibattito artistico in Italia si era radicalizzato attorno a due concezioni contrapposte che per la pittura pretendevano comunque lo svolgimento di un “servizio”. Da una parte c’era chi riteneva che la pittura dovesse servire le masse, il partito, e quindi essere realistica; dall’altra c’era invece chi sosteneva che la pittura doveva essere al servizio della forma, in tutte le sue manifestazioni già esplorate e ancora esplorabili, del tutto indifferente alla necessità di riprodurre il reale. E’ probabile che in quegli anni Luporini si chiedesse perché mai la pittura non dovesse essere al servizio dell’uomo, oppure perché tale servizio dovesse essere ritenuto meno sociale del realismo di partito o meno intellettuale del formalismo puro. Un’arte al servizio di un uomo che non fosse astratto, teorico come nelle concezioni politiche, religiose o estetiche, ma vero, alle prese con i problemi concreti del proprio quotidiano, un essere pensante con tutti i suoi umori, istinti, sentimenti, passioni, riflessioni. L’arte di Luporini è diventata così l’occhio alternativo a quello naturale, uno sguardo dell’anima, una rielaborazione del proprio vissuto che si configura come “altro” rispetto alla realtà, come sua interpretazione anche quando sembra “mimèsis” o i suoi significati non risultano del tutto comprensibili. Un test senza fine, l’arte così concepita, all’interno di un universo interiore che viene percorso secondo pensieri spesso imprevedibili, sempre in bilico fra ragione e inconscio, fra verità e immaginazione, fra la memoria e il presente, fra individuo e collettività. Ed è proprio questa dialettica di opposti apparenti a generare in Luporini la dimensione dell’“altro” metafisico, senza un tempo e un luogo preciso che non siano della mente; una “non realtà” che corre parallela al mondo reale e con esso si confonde così come capita nei nostri pensieri, nei ricordi, nelle fantasie, nei sogni. L’“altro” metafisico di Luporini è allora il processo con cui egli metabolizza la conoscenza della realtà, la emancipa dalle contingenze spazio-temporali e la carica di nuovi significati rispetto a quelli strettamente oggettivi, nell’aspirazione di ottenere una conoscenza più approfondita di essa. Del resto nessuno di noi si accontenta dell’oggettività delle cose, dell’insopportabile aridità della materia. Noi tutti, cioè, produciamo un nostro “altro” con cui conviviamo, ora secondo modalità comuni, ora in un modo più personale, proporzionalmente a quanto personali risultano le nostre stesse esistenze; in questo l’arte dell’“altro” diventa universale, soggettività accomunabile a quella di tanti altri soggetti, linguaggio capace di parlare a tutti. L’“altro” pittorico di Luporini ha però un pregio indiscutibile rispetto all’“altro” dei comuni mortali: quello di mostrarsi esattamente per ciò che è, senza altri possibili equivoci.
Luporini ci fa capire benissimo quello che aveva già capito de Chirico: l’immagine dell’“altro” non si guarda, si rivela. Non sono gli occhi a determinare l’“altro”, è l’“altro” che si offre a noi in modo incontrovertibile, come se i giochi fossero già fatti, come se tutto fosse definito e ordinato come doveva essere. Ecco perché, ad esempio, rispetto a una spiaggia reale, le “altre” di Luporini non sono delle varianti possibili in una casistica potenzialmente infinita, ma sono rivelazioni, visioni agghiacciate e per certi versi agghiaccianti del mondo che si manifestano in una maniera volta solo parzialmente alla ragione. Spiagge che nella realtà sono luogo di piacere, di spensieratezza di massa, e che nell’“altro” di Luporini diventano invece luogo di umana atarassia, di sospensione assoluta, di geometrie che accentuano l’effetto di desolata solitudine, di felicità che viene implicitamente negata. Un capovolgimento di valori che non ci viene presentato come una perfetta equazione, ma attraverso elementi visivi che continuano a mantenere una loro ambiguità, un’impossibilità ad essere tradotti integralmente in qualcosa di uguale. Nelle pitture di Luporini c’è sempre qualcosa che ci sfugge, un fattore d’indefinito e d’instabile in visioni che sono invece impeccabili per lucidità e compiutezza formale. E’ questo impedimento, questo stare davanti a un libro aperto che non ci dice tutto quello che vorremmo sapere, a coinvolgerci in un senso di frustrazione, come se le risposte ultime alle ragioni del tutto ci fossero negate, ma anche in una sottile suggestione, come se dall’indefinito e dai nostri limiti potesse derivare una malinconia perfino consolante. E’ un lirismo del disincanto, quasi una contraddizione in termini, che ci fa sentire piccoli e inermi davanti alla grandezza dei massimi sistemi, ma anche terribilmente umani in questa nostra congenita debolezza.